now and then

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ero un ragazzo di quattordici anni, scolaro di ginnasio.
Fra tanti dei compagni che non mi andavano a genio o che semplicemente non gradivo, ve n'era uno bellissimo.
Egli era troppo pigro e ribelle per essere il primo della classe, ma tutti notavano che gli sarebbe servito il minimo sforzo per diventarlo.
Poche delle nostre intelligenze si rilevavano come la sua: limpida, felice e differente.
Il primo della classe ero io: possedevo l'indole poetica e, pensando al lui, mi veniva fatto di chiamarlo Henry Chinaski.
A rievocarlo con questo nome rivedo il suo ego ironico e il suo mal comportamento nei confronti delle regole e di tutto ciò che veniva considerato giusto dalla società dei tempi.
Il tutto accompagnato dai suoi lineamenti marcati e dai suoi capelli che tagliava all'incirca ogni due mesi, li portava tirati indietro, alla Elvis, li definivano lui e gli altri scolari.
Riesco ad intravedere anche quelle guance compatte che si accordavano perfettamente a quelle sottili labbra che ognuno in classe si era concesso di osservare almeno una volta.
Il suo egocentrismo e la sua superbia erano legittimi, era il più ricco di noi e ne era più che consapevole.
A scuola si recava sempre ben vestito, ed era anche dotato di strumenti musicali che utilizzava per mettersi in buona mostra.
Ricordo ancora che un giorno, nel giardino della scuola, si presentò con una chitarra che non fece toccare neanche all'amico più fidato, attirando ovviamente tutte le ragazze delle classi di letteratura, che gli correvano dietro fin dal primo anno.
Nessuno di noi presumeva di esser degno di accedere in una casa simile alla sua, pur non sapendo minimamente come essa fosse, tutti l'avevano sempre immaginata regale e inaccessibile a gente poco rilevante come noi.
Solitamente ritornava da solo a casa, tranne il Venerdì.
Quel giorno veniva sempre a prenderlo una donna che, a quanto egli stesso disse, era la sua serva.
Alta e riservata, superba come il ragazzo, raccoglieva sempre i suoi neri capelli in uno chignon ben composto dietro la testa.
I due non si scambiavano neanche uno sguardo, e con serietà e freddezza la donna lo aspettava alla fermata dell'autobus.
Dopo l'arrivo del ragazzo, i due si avviavano, alquanto ne so, verso la propria dimora, su cui tanto fantasticavo.
Sebbene io fossi il primo della classe, mi riempivo di fierezza quando egli mi chiamava con il nome di battesimo, invece di chiamarmi per cognome, come faceva con gli altri scolari.
Un giorno, ognuno di noi si accorse che il suo viso era completamente diverso dal solito.
Nei suoi occhi vi era una specie di spavento furtivo. Pareva un cane bastonato, pensai con pietà.
Alla prima domanda del professore infatti, fissò la cattedra con quegli occhi stupefatti; poi rispose con una delle solite risposte da ragazzino che si opponeva al sistema, ma queste parole erano accompagnate da strane lacrime che fuoriuscivano dai suoi delineati occhi.
Strane perché esse non erano liberatorie e spontanee, come quelle dei suoi coetanei: esse erano faticose, amare, come quelle degli adulti, mi venne da pensare.
Mentre compiva il tutto, teneva la testa ripiegata fra le braccia e agitata da sussulti, ci vinceva lo stesso angoscioso disagio che si prova a veder piangere un uomo.
La mattina dopo, la causa di tutto questo venne a galla: il compagno infatti non si presentò a scuola perché sua madre, con la quale non nutriva il migliore dei rapporti, era stata investita il pomeriggio precedente da un poliziotto.
Venimmo inoltre a conoscenza che la donna che si degnava di aspettarlo tutti i venerdì, era la sorella della madre, la zia del ragazzo: egli, pur vantandosi di ciò, era consapevole di vergognarsi tanto di vivere in quella borghesia che in realtà non gli apparteneva.
Tale spregevole commedia eccitò un dispiacere nei confronti del compagno, ma poiché egli cessò di frequentare la scuola, non vi fu il piacere di praticarlo.
Il compagno, già da prima abbandonato dal padre e dalla madre in tenera età, venne accolto dalla zia, che lo costudiva come un vero e proprio gioiello.
Il ragazzo fu sincero con la zia dopo la morte della madre: voleva abbandonare la scuola per dedicare tutto se stesso alla musica, sua grande inaspettata passione.
La donna, nonostante gli infiniti litigi e i continui rifiuti, non cedette.
Lo trovavo spesso nei piccoli parchi di Liverpool a cercare di comporre stonate melodie dopo esser fuggito di casa, riferendo solamente di dover andare a scuola.
Io, con una tensione pari a quella delle corde della sua chitarra, gradivo insegnargliene sempre una, che ripeteva all'infinito fino a quando non riusciva a praticarla con più scioltezza possibile.
Ed è così che io e l'alter ego di Bukowski, chiamato comunemente John, diventammo prima amici, in seguito amanti, poi il duo di scrittori più importante della storia, successivamente rivali e poi nuovamente amici e amanti come un tempo.
Ancora oggi, malgrado la mia profonda conoscenza verso la sua persona, per certi versi non riesco a comprenderlo, specialmente nelle sue imprevedibili azioni che amava compiere senza preavviso.
Solo a pensare che in una di quelle panchine in cui imparava le melodie riuscimmo a rivoluzionare l'intera storia della musica, strani brividi percorrono la mia esile schiena.
E nonostante gli infiniti litigi, le ore buie passate a piangere ognuno al fianco dell'altro e le canzoni composte su quegli scomodi divani, in quelle umide cantine o in quei prati dispersi nel nulla, da quel fatidico Otto Dicembre del 1980, quell'uomo mi manca più di qualsiasi altro uomo presente sulla faccia della terra.

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𝐇𝐄𝐑𝐄 𝐓𝐎𝐃𝐀𝐘. 𝙼𝚌𝙻𝚎𝚗𝚗𝚘𝚗Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora