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È frustrante osservare scorrere la città dal finestrino opaco e sudicio di questo taxi. L'aria asfissiante caratterizza questo squallido abitacolo mentre l'autista cerca di catturare l'attenzione di mio padre raccontandogli qualche ridicolo aneddoto, nella speranza di apparire simpatico e acciuffarsi una mancia dignitosa. Ma questo buffo uomo con addosso un cappellino di una qualche squadra di baseball e con le dita ingiallite dal fumo di tabacco fallisce miseramente nel suo tentativo perché mio padre non lo degna nemmeno di un risolino cordiale. Continua a smanettare sul suo costoso iPad mentre ogni tanto rivolge il suo sguardo austero,  nascosto dagli occhiali da sole,  fuori dal finestrino.
Vorrei dire al taxista di non prenderla sul personale, che mio padre non degna nemmeno me di uno sguardo e che sembra che dalla morte di mia madre un iceberg abbia sostituito prepotentemente il suo cuore. Mi mordo l'interno della guancia e tengo per me queste riflessioni troppo filosofiche, limitandomi a regalare al signore uno sghembo sorriso che intravede a malapena dallo specchietto retrovisore.
Il resto del tragitto, che devo ammettere è stato decisamente snervante, lo trascorro ad osservare i pezzi casuali di questa città australiana. I raggi arroganti del sole si riflettono sulle vetrate degli imponenti grattacieli che popolano le immense strade trafficate, persone in canotte stravaganti e short fanno jogging negli estesi parchi di un verde così intenso e brillante da smorzarmi il fiato. Un gruppo di ragazzini eccentrici si muovono liberamente a ritmo delle note di una chitarra catturando l'attenzione dei curiosi e anche la mia. Abbasso il finestrino del taxi per percepire meglio le note di quella melodia che, stranamente mi trasmette una certa tranquillità e spensieratezza. I miei ricci ribelli svolazzano dal finestrino e mi sporgo ancore di più per osservare quei ragazzi che sembrano così felici e raggianti. Li guardo con una certa ammirazione mentre una delle ragazze dai capelli biondo platino e con una bizzarra gonna a fiori mi regala un sorriso cortese.

<<Hope chiudi il finestrino>> ordina mio padre con tono palesemente infastidito mentre tenta di tenere a bada il ciuffo ingellato, leggermente scombussolato dal vento afoso. Sollevo gli occhi al cielo indispettita celando il mio nervosismo dietro una maschera di neutralità ed esigo il suo desiderio. Da quando abbiamo preso l'aereo a quando siamo atterrati nella città in cui mi ha costretto a trasferirmi, mi avrà rivolto la parola solo un paio di volte e solo per reali necessità. Dalla sua bocca non è uscita nemmeno una parola di conforto, nemmeno una rassicurazione, ma dovrei stupirmi più di così. Sono praticamente abituata alla sua indifferenza, al suo menefreghismo e se questo prima mi faceva male come una ferita sanguinante e profonda sul petto, adesso è solo una cicatrice. Una cicatrice impressa sulla mia pelle che mi ricorda di un dolore atroce e straziante, ma pur sempre una cicatrice. E si sa, le cicatrici sono ferite rimarginate col tempo e non fanno più male.

<<Siamo arrivati a destinazione Signor. Johnson>> esordisce il taxista con un tono di voce che sembra celare un miscuglio di disagio ma anche di sollievo. Credo sia contento che sia finita questa corsa e che non dovrà vedere mai più la faccia di mio padre.
Lo invidio per questo.
<<Bene>> squittisce mio padre aprendo con fare teatrale lo sportello dell'auto, non prima di aver lisciato ossessivamente il suo pantalone perfettamente stirato, come se una minuscola piega potesse danneggiare la sua immagine. Lo imito e scendo dal taxi, ma solo in quel momento il mio sguardo viene catturato da una imponente villa completamente decorata con graziosi mattoncini color bronzo accesso. Una splendente vetrata circonda tutto il piano superiore permettendo la vista di un elegante e signorile salone bianco. Deglutisco a stento dinanzi a questa lussuosa immagine e non riesco a tenere la bocca chiusa mentre il caldo afoso comincia a farsi percepire sempre di più.

<<Questa villa è nostra?>> chiedo a mio padre sbigottita mentre il taxista gentilmente mi passa la valigia e scruta con curiosità la mia espressione facciale, come se stesse per assistere ad un qualche dramma familiare.
<<Non proprio>> risponde secco lui. Si sfila con raffinatezza gli occhiali da sole incastrandoli tra la scollatura della sua camicia griffata. I suoi occhi di un verde spento si rivolgono soddisfatti e appagati nella direzione della maestosa abitazione mentre poggia le mani sui fianchi. I raggi luminosi mettono in evidenza le quasi impercettibili goccioline di sudore che alloggiano sulla sua fronte increspata. Sembra davvero estasiato mentre sfila il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni per compensare il taxista, che intuisco perfettamente non vede l'ora di darsela a gambe.
<<Che vuol dire non proprio?>> chiedo con insistenza incrociando le braccia sul petto e mimando le virgolette.

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