SI SCHIUSE

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Quella prima volta mi cambiò l'esistenza. Non già perché ero inesperto di pratiche sessuali, ma tutt'al più perché ero goffo. Potessi paragonare i miei modi a quelli di un animale, sceglierei un grosso scimmione.

E lei, invece, pareva una primavera botticelliana con fiori ancora incolti e prati su cui poggiare stanco il capo.

Si schiuse. Come fanno i fiori di pesco ad aprile in Quaresima. Lei si schiudeva e io che lentamente ero morto, d'un tratto risorsi.

Con Lei non imparai solo a fare l'amore.

Imparai a carezzare, a dischiudere i nodi dei suoi rami incolti, imparai a tessere trame lungo le vene blu, che fuoriuscivano dai polsi bianchi come i ranuncoli selvatici. Come la neve a gennaio in un paesino del sud.

Appresi che la pazienza non era la virtù dei forti, ma degli innamorati. Pazientai per vederla dormire sul mio corpo, racchiusa nel bocciolo intriso di vita. Lei era una donna, e pure pareva una bimba quando respirava nei sogni.

Pazientai per vederla contorcersi nel buio che le riservava incubi e fattacci. Bimba, mi chiedevo, chi ti ha fatto del male? Chi ti ha ferita? Chi ti ha calpestata? Chi tenta di rubarti l'innocenza? Era una donna, eppure la guardavo e anche dopo anni di vita condivisa, restava una bambina che attende la voce calda della madre per chiudere gli occhi.

Pazientai per darle un bacio in fronte e portarle via i tormenti. Poi le carezzai il viso disegnando con il pollice i suoi contorni. Giunsi alle labbra e mordendo le mie, mi fermai da darle un bacio. L'avrei svegliata.

Quando le misi le mani sui seni per la prima volta, ricordai mio padre quella volta che mi portò nella vigna che avevamo ereditato dal nonno a raccogliere uva con le maestranze.

I suoi seni erano come grappoli recisi. Piccoli e delicati da raccogliere con cura.

Con lei imparai a piangere, quando, poggiato con il capo sul suo ventre, le raccontai che ogni uomo vive nel costante tormento di perdere la madre. Sarebbe stata lei, un giorno a sostituire quell'amore viscerale.

Lei, corpo di Venere, occhi da cerbiatta, labbra di carne viva un giorno mi avrebbe fatto da madre e in più da sorella, da figlia e da compagna.

Appresi nell'istante stesso in cui una lacrima toccò il suo ventre che Lei sarebbe stata la salus vitae meae.

Quel bisogno di fare bene, di migliorarsi, di essere vivo.

Pazientai il mattino seguente, per vederla scrollarsi di dosso la rugiada mattutina.

Fiore, buongiorno, pensai. Ai timidi raggi di sole che attraversavano la finestra mi parve più bella della notte precedente e m'accorsi dei graffi che le avevo lasciato sui fianchi.

Sei uno scimmione, pensai di me. Un animale che in preda ai suoi piaceri dimentica di avere un senno. Un fiore delicato lo hai calpestato con la tua indelicatezza, sporca irruenza, veemenza. Ma quale pazienza avevo avuto io.

Quella notte l'avevo massacrata senza ritegno e lei magari soffriva in silenzio. Piccolo grappolo acerbo, reciso troppo presto, pensai. E cosa mi restava in mano? Dell'uva sfatta, buona per l'aceto.

Mi baciò le tempie.

Mi carezzo la barba.

Mi guardò negli occhi stanchi di chi, per pensare a tutto questo, non aveva chiuso occhio.

Prese il mio viso e lo pose tra i suoi seni.

"Il tormento te lo costruisci addosso con il tempo" e dopo aggiunse "...io voglio disegnare per te il sollievo"

Il fiore fragile ero io, e non lo sapevo.

E poggiando il suo sguardo su di me, mi amò.

Prima piccola considerazioneDove le storie prendono vita. Scoprilo ora