shot(3)

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Odiava tutto di lui: dai capelli unticci al sorriso di denti storti. Detestava l'azzurro acquoso dei suoi occhi, la sclera ingiallita dal fumo e la pelle butterata dalle cicatrici dell'acne.

Sempre col collo torto su qualche progetto, la faccia stupida di un bambino che cerca la madre al centro commerciale.

Era sempre stato così, rifletté Monica, sin dai primi tempi. Un'onestà che non poteva rimproverargli.

Strinse le braccia al corpo, cercando di riscaldarsi con le dita. Il cielo era azzurro e terso quando era uscita, ma ora era chiaro che di lì a poco avrebbe iniziato a piovere a dirotto. Ricordò che lui aveva un modo suo di prevedere gli acquazzoni. Qualcosa sull'umidità che doveva avergli detto sua madre. Gran donna, quella: sveglia, atletica e con un acuto senso dell'igiene. Tutte caratteristiche che in lui mancavano.

C'erano state buone ragioni per rimanere sposati tanto a lungo: lei aveva un lavoretto part-time, lui un contratto a tempo indeterminato. I suoi genitori si erano stancati di vederla per i corridoi, lui aveva una casa di proprietà. Era stata giovane e stupida abbastanza da scambiare una lieve infatuazione per qualcosa di più duraturo.

All'inizio era bello. Lui le sembrava bello. Desiderabile, persino. In verità non era mai stato né l'una né l'altra cosa: a distanza di anni, le erano chiari i motivi che l'avevano spinta in quel baratro. Aveva passato i venticinque. Tutte le sue amiche avevano già qualcuno. Ancora non avevano il coraggio di deriderla a viso aperto, ma presto le punzecchiature si sarebbero fatte più sfacciate.

Quando era arrivato lui, l'aveva accolto come un'ancora di salvezza. Era stata la prima persona a manifestare interesse nei suoi confronti. Anche questo, meditava attraversando la strada, doveva aver contribuito.

Sbuffò, insofferente, e affrettò il passo. Aveva poca voglia di andare, ma non poteva evitarlo.

Liquame. Che genere di liquame? Non erano stati precisi. Liquame dalla tomba.

La sua morte era stata una liberazione. Alzandosi al mattino non doveva più sopportare il suo fetore, coricandosi la sera non temeva più il suo tocco viscido.

Monica era stata la più felice delle vedove. L'unica difficoltà era stata non sorridere accompagnando la cassa. La stessa che ora la tormentava.

Quasi inciampò. Maledisse il porfido di quella zona. Controllò in fretta i tacchi, pronta al peggio. Il sollievo le riscaldò il petto quando vide che erano intatti; aveva dovuto buttare già due paia di scarpe, le sarebbe spiaciuto aggiungerne un terzo.

Iniziò a piovere. Poche gocce, quasi impercettibili. Se ne accorse quando una le finì sul naso. Non si preoccupò di correre: mancava poco all'ingresso.
La chiesa emerse di colpo dai tetti quando la pioggia iniziava a farsi più forte. Si affrettò sui gradini, attenta a non scivolare, e si riparò nella nicchia oltre il portale. Faceva sempre più freddo e il tailleur leggero non la riparava. Decise di entrare.

L'avevano chiamata quella mattina, chiedendole di recarsi al cimitero. Che fosse tornato? Un terribile pensiero, subito fugato. Ma lì, tra le navate rischiarate appena dalle fiamme rossastre delle candele, la mente tornava a indugiare su quella follia.

Liquame dalla tomba. Monica non era un'esperta di sepoltura, ma suonava brutto anche alle sue orecchie. Si sedette sull'ultimo banco, le gambe incrociate. Lo immaginò svegliarsi nel buio della cassa di rovere, scavare con le dita sul coperchio sigillato. Gridava, consumando il poco ossigeno che gli rimaneva. Non era troppo sveglio neppure nella fantasia.

Che stupidaggini. L'impiegato al telefono non era stato molto chiaro, ma un'idea Monica se l'era fatta: la bara aveva ceduto e i resti al suo interno avevano iniziato a trapelare. Se non ricordava male, il suo loculo era tra quelli più alti. Il liquame doveva essere filtrato in quelli sottostanti.

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