the beauty of beholding

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Edith non vedeva l'oceano da quando sua mamma, Meryl, non c'era più. Per lei era strano trovarsi ancora lì, seduta sulla costa dello State Park. Dopo tanto tempo, guardare il cielo sdraiata sull'erba di quel luogo le sembrava un atto irreale, qualcosa di impuro, di sbagliato.

Dopotutto, era partita dalla Spagna per un preciso motivo, e non era la mancanza della sua casa, della sua infanzia o, tanto meno, della California.

Era sempre stata una ragazza insicura, talmente chiusa in una bolla di vetro, in un mondo dove soltanto due "persone" avevano il permesso di entrare, che agli occhi dei suoi compagni di scuola, dei loro genitori, della sua insegnante, appariva come una candela spenta, una fiamma dissolta nell'aria come il soffio di vento che persisteva a muoverle i capelli neri. Questi erano come quelli di suo padre, scuri e folti; da lui aveva ereditato solo il gran groviglio di ricci irrefrenabili; ma i suoi occhi, oh.. i suoi occhi erano proprio i suoi. Non poteva mai sfuggirle. Ogni volta che si guardava allo specchio -e lo faceva raramente- doveva abbassare lo sguardo per non incontrarlo. Il suo pensiero l'aveva ormai distrutta, si stava servendo di lei per superare la fame, la stava divorando lentamente.

Eppure era davvero lì, nonostante tutto, dove tutto era iniziato, finito.

Edith prese il vasetto dorato che aveva al suo fianco, osservandolo per un periodo indeterminato. Nessuno sapeva che lei si trovasse di fronte ad un vasto cielo notturno, un cielo che aveva rapito il colore dei suoi capelli e l'aveva usato per dipingere la casa delle stelle.

Ma ce la poteva fare, lei. Per anni era rimasta una nana bianca, una stellina fragile con una luce fioca, appena percettibile. Però c'era sempre, quella luce. Non l'aveva mai abbandonata, neanche quando il suo cuore, che batteva diviso a metà per la mamma e per Sirio, si era frantumato come il corpo di Meryl quando aveva incontrato l'acqua del mare, gelida, atroce.

Non aveva mai capito cosa l'avesse portata ad andarsene in quel modo, senza nemmeno salutarla, baciarla. Ma, ormai, era troppo tardi. Il cuore di Edith aveva ripreso il suo ritmo, lento, triste, dopo tanto tempo.

Batteva solo per Sirio, il suo fedele cagnolino.

Con il vaso tra le mani magre, che rifletteva con il suo corpo dorato gli occhi verdi di lei -spenti, cupi-, ricordava di una notte, quando era ancora bambina. Meryl l'aveva portata in alto, proprio dove si trovava ora lei. Insieme avevano guardato la cupola di puntini argentati e l'avevano indicata con quella felicità e spensieratezza tipica di un bambino curioso, di un adulto che ricorda dell'altalena in cui giocava quando era ancora piccolino.

La sua mamma le aveva mostrato le costellazioni che si ergevano sopra i loro nasi: così lontane, eppure talmente vicine da poterle disegnare con le dita. Edith dimenticava i loro nomi subito dopo che Meryl glieli aveva pronunciati, le parevano così complicati, allora!

"Guarda, piccola. Quella è la costellazione del "Cane maggiore"

Edith la cercava, ma non riusciva a trovarla.

"Vedi quella stella? Quella più luminosa"

L'aveva vista.

"Ecco, quella è Sirio. È la stella più luminosa del cielo"

Era stata efficace, quella frase. Dopotutto, ai bambini piacciono le cose grandiose. Era bastato un "più luminosa" per lasciare, ad una Edith bambina, il suo ricordo.

Poi avevano sentito dei rumori. Sembravano dei lamenti, dei mugolii sussurrati. Ad un certo punto, dall'erba alta, era spuntato fuori un batuffolo di pelo: era bianco. Secondo Edith, assomigliava tanto alla graziosa stella, la più luminosa. Perché anche quel cucciolo smarrito, come lei, riusciva a mostrare il suo colore puro nonostante il buio della notte.

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