Prologo

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La storia essendo in stesura potrebbe ricevere delle modifiche o correzioni a capitoli già pubblicati

Dolore.

In tutta la mia vita non avevo fatto altro che cercare di contenerlo. Non ero stata io a scegliere di farlo: così mi era stato insegnato fin da quando sono nata. 

Dovevo farlo per compiacere i miei Superiori, dovevo farlo per sopravvivere.

Nessun gemito doveva fuoriuscire dalla bocca sanguinante, nemmeno il più impercettibile dei lamenti, per questo motivo serravo la bocca ogni volta che mi colpivano. Così, il nemico non avrebbe saputo con quanta facilità mi stesse frantumando le ossa. Sentivo il dolore percorrermi il corpo e questa volta non riuscii a mantenere la posa che la mia istruttrice voleva che mantenessi.

«Raddrizzati!» mi intimò, mentre ero piegata in due dalla sofferenza. Nonostante le orecchie mi fischiassero, sentivo distintamente la voce cristallina e autoritaria di Raisa. «Non ti vedo lottare. Non stai lottando, Oksana. Ti stai rammollendo? È così che cerchi di guadagnati la libertà? Prendendo i pugni?» mi rimproverò.

Non so con quale forza alzai lo sguardo su di lei ma, quando lo feci, vidi il pugno tagliare l'aria a una velocità disarmante. Mi centrò in pieno viso con la stessa incisività di un tuono. La mia testa schizzò di lato come un palloncino di elio che rispondeva con troppa facilità alle sollecitazioni. Sentii il sangue colare dallo zigomo e la carne delle guance lacerata.

Probabilmente me lo aveva spaccato.

Di nuovo.

Uno schizzo cremisi volò dalla mia bocca come uno sputo e imbrattò il pavimento di legno. Subito la vista di quel rosso fulgido mi fece serrare la mascella.

«Istruttrice» alitai, con l'intenzione di prendere tempo per cercare di respirare, ma la voce era raschiata dalla fatica di trattenere qualunque tipo di suono. Gli allenamenti diventavano sempre più duri... e io restavo costantemente indietro.

«L'unica e sola» ribatté sprezzante Raisa, alzando il mento per farsi notare.
A differenza mia aveva solo qualche graffio che segnasse la pelle inviolata. La sua sfrontatezza e la forza che usava per saltellare da un piede all'altro mi ricordò la mediocrità che mi permeava.  Il sudore le imperlava la fronte, unico segno che lasciasse trapelare il fatto che stesse combattendo, per il resto la postura era rilassata e priva di tensione.
«Cosa cerchi di dirmi, Oksana?» mi istigò, allungando una mano per aiutarmi. «Forse sono troppo forte per te» confermò la sua tesi con un sorrisetto. «Per come la vedo io, dovrei farti allenare con le nuove arrivate nella zona sud dell'Accademia, lì sì che te la spasseresti. Si è arruolata una giovane mingherlina che potrebbe andare bene per i tuoi deboli pugni, che ne dici?»

«No» dissi di slancio, offesa dalle sue parole. Scostai la mano che mi stava adagiando. Puntellai le mani sulle ginocchia e costrinsi i miei arti a collaborare contro la loro volontà. Mi raddrizzai, sputando del liquido che si era formato in eccesso nella mia bocca. Un misto di saliva e sangue.

Raisa avanzò verso me con indolenza, sembrava molto più anziana, e invece possedeva solo qualche anno in più di me. Il ricordo del pugno micidiale che si abbatteva sul viso mi fece accalorare le guance già in preda al bruciore. Vedendola troppo vicina, arretrai, portandomi i pugni all'altezza del mento e stringendoli con così tanta forza da conficcarmi le unghie nei palmi.

Raisa mi osservò e proruppe in un verso catartico. «Sta' tranquilla. Ho recuperato il controllo dal nostro ultimo incontro, sono consapevole che stavo per ucciderti, ma sappi che se ti fossi ritrovata al di fuori delle mura saresti già morta da un pezzo. Sei debole.»

La verità mi ferì come un coltello. Sapevo che aveva ragione, ma non potevo fare altrimenti. 

Sentii i lamenti delle altre ragazze mentre erano intente ad allenarsi. Nessuno ci guardava, e noi non guardavamo loro. Era una delle regole insindacabili dell'Accademia: nessuna distrazione.

Raisa caricò, ma questa volta riuscii a evitare il suo affondo. Mi allontanai da lei, cercando un modo per colmare i capogiri. Chiusi gli occhi e attesi un istante che tutto smettesse di vorticare come una trottola impazzita, piegai il capo da un lato e filtrai la figura dei Raisa con gli occhi: tutto ciò che vidi fu una macchia indistinta.

Raisa prese a camminarmi intorno e a fissarmi con scherno.

«Povera Oksana» mi sfotté. «Galina non sarà affatto contenta di te. Avresti dovuto essere una delle migliori arrivate a questo punto.» Nonostante il tono denigratorio, il volto era una maschera di ghiaccio, impassibile come solo un'assassina dell'Accademia poteva essere. Il mio, invece, era l'incarnazione della rabbia. Avevo il respiro pesante non solo per lo sforzo del combattimento, ma anche per l'ira che provavo nei confronti delle mia istruttrice.

Sapevo che stavo sbagliando.

Benché fossi una novizia, ero un'allieva dell'Accademia dell'Area 1 e non erano ammesse tali libertà come provare sentimenti. Non dovevamo lasciare che la rabbia pilotasse le nostre mosse: dovevamo essere noi ad avere il comando, un'altra regola da tenere bene a mente poiché l'Accademia non era un posto in cui potevamo ignorare determinate direttive.

«Mi hanno trasportata nella casa di cure. Sono stata lì ad aspettare che guarissero le tre costole che mi hai spezzato» la accusai, abbozzando un sorriso selvaggio e ironico al tempo stesso.

Raisa emise un verso seccato. «Non ho nessuna colpa se hai le ossa fragili e basta poco per mandarti K.O.» Mi sferrò un montante sinistro, ma riuscii a pararlo, contrattacando. La colpii al fianco con un pugno. Raisa emise un verso strozzato, ma nulla che mi potesse suggerire quanto l'avessi ferita. Mi allontanò da sé aiutandosi con una spallata. Gliene sferrai un altro, un colpo vibrante di rabbia, ma lei fu brava ad arginare il mio attacco a immobilizzarmi entrambe le mani. Mi liberai dalla presa con uno strattone. Strinsi i denti con forza, ormai in balìa della tempesta emotiva che si era scatenata dentro di me, sembrava non facesse il benché minimo sforzo. Mi rivolse un'espressione quasi apatica. «Non te la sei cavata bene nemmeno l'ultima volta. Ho aspettato che ti riprendessi in modo da darti il tempo per battermi. Perché ci metti tanto?» 

Corse verso di me, mi afferrò la nuca e con un movimento fluido, mi scaraventò a terra. Il respiro mi si mozzò in gola. Emisi un verso rauco, tastandomi con le mani la schiena dolente. Sentivo i tessuti bruciare e il dolore irradiarsi ovunque. Ci misi un po' per riprendermi. Infine, guardando la mia istruttrice dal basso, abbozzai un sorriso pieno di disprezzo. «Mi dai sempre ottimi incentivi per spingermi a batterti.»

«Allora seguili.» Fece una pausa, perdendo il sorriso. «O ci morirai in questo posto.»

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