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Mi ricordo la prima volta che lo incontrai.
Quel giorno avevo appena finito di scrivere il mio romanzo, quello a cui tenevo più della mia stessa vita, quando la mia migliore amica mi costrinse ad andare a ballare per festeggiare. Quella sera mi misi in tiro, non perché sapevo che l'avrei incontrato, ma perché era un'occasione importante per me. Ricordo ancora come mi vestii: un vestito rosso avvolgeva il mio corpo snello, accentuando le mie forme e lasciando scoperte le gambe, mentre ai piedi portavo delle décolleté nere, che si abbinavano alla mia chioma corvino che morbida cadeva sulle mie spalle, mettendo in risalto il pallore del mio viso e l'azzurro degli occhi.

Quando misi piede dentro quel locale, una gran voglia di tornare a casa mi assalii, ma come se qualcosa mi trattenne, rimasi. Alcune persone riempivano il bancone bar circolare, posto in un lato della stanza, illuminato da luci colorate, mentre altre ballavano, riempiendo la pista.

Ignara di incontrarlo di lì a poco, mi avvicinai al bancone, dove gli amici della mia migliore amica bevevano il loro drink, e cercai di socializzare con loro.
«Ciao ragazzi, scusate per il ritardo, ma c'era l'autostrada bloccata!» La musica sovrastava la sua voce. I suoi occhi verdi incrociarono i miei per la prima volta. Spostò i suoi capelli corti e castani con una mano, mi sorrise. Gli sorrisi.

Se avessi saputo, che subito dopo aver alzato i calici per brindare al mio libro, sarebbe arrivato scusandosi del ritardo per colpa del traffico, fidatevi, mi sarei allontanata il più velocemente possibile.
Avrei evitato ad ogni costo il suo sguardo, o di ricambiare il suo maledetto sorriso, e avrei evitato di uscire dal locale quando uno stupido mal di testa mi avrebbe colpito.
Se avessi saputo che mi avrebbe seguita, Dio, avrei cercato un modo per non farmi trovare. Mi sarei nascosta da qualche parte pur di non rivolgergli la parola, pur di non conoscerlo.
E invece mi trovò, seduta sui gradini di quel locale, dove tutto ebbe inizio, a massaggiarmi le tempie, mentre la leggera brezza della notte estiva sfiorava le mie spalle scoperte.
Si sedette accanto a me senza far rumore, e fu quando mi chiese come stessi, che sentii, veramente, la sua voce.
Era calda e tranquilla, quasi rilassante.
«Si, ho solo un po' di mal di testa.» gli risposi, troncando la conversazione, mentre lui mi studiava silenziosamente.
«Ci pensi a quante cose si possono fare in silenzio?»
Questa la prima domanda che mi fece dopo interminabili minuti di silenzio.
«Come?»
Non lo capii subito, anzi, mi sembrò svitato.
«Sì, pensaci bene. Ci sono persone che nel silenzio fanno tanto: combattono le proprie battaglie, sconfiggono le proprie paure, si incazzano, si amano, si odiano, ridono e piangono. Praticamente vivono nel silenzio.»
«Io penso che non si possa vivere solo nel silenzio. Penso che se perdi una tua battaglia personale devi incazzarti, buttare giù le porte. Che se ami forte qualcuno devi urlarlo al mondo intero, mica puoi stare zitto, devi dirlo a tutti che stai vivendo l'amore che hai sempre sognato, che lo senti fin dentro le ossa e che hai perso il cuore e la testa. Non si può vivere nel silenzio per sempre. Si ha bisogno di caos, di rumore in questa vita, altrimenti tutto perde colore. Tutto perde un senso. Ecco cosa penso.» Presi fiato e mi zittii.
Cosa stavo facendo?
Fu questa la prima cosa che mi domandai una volta finito di parlare.
Ancora oggi non so il perché gli risposi in quel modo. Avrei potuto annuire lasciando cadere lì il discorso, dandogli ragione anche se non la pensavo come lui. Avrei potuto rispondere in qualsiasi altro modo, eppure gli dissi esattamente quelle parole, e non sapete quanto avrei voluto non farlo se solo avessi saputo cosa mi avrebbe fatto.
Ed è per questo che non mi perdono: per avergli permesso di sapere cosa la mia testa pensava,
di rivolgermi la parola,
di farsi spazio dentro di me, fino a toccare ogni centimetro del mio cuore inesperto e mal funzionante,
di conoscere ogni mia paura e insicurezza,
di far vedere ogni lato di me, anche quello più nascosto e debole.
Di essere sua, e di avermi stravolta da cima a fondo.
«Adesso so cosa pensi, ma non so il tuo nome.» mi disse con un sorriso sul volto.
Ed io lo sapevo che mi avrebbe fatto male, non sapevo il perché ma lo sapevo uguale.
Non appena ricambiai il sorriso, non appena incrociai i miei occhi con i suoi, capii che avrebbe fottuto ogni cellula del mio cervello, ogni parte del mio corpo, e che avrebbe fatto così tanto caos dentro di me, che mettere in ordine non sarebbe stato più possibile.
Ed è per questo che mi alzai senza dirgli il mio nome, gli voltai le spalle, e mi incamminai verso l'entrata.
«Vai via senza dirmi come ti chiami?»
Lui non mollò, ed io mi fermai sul posto, come paralizzata dalla sua voce.
«Forse è meglio così.»
Sapevo che l'avrei rivisto e che non sarebbe finita lì tra noi due, me lo sentivo, ma per il momento preferii andar via senza dirgli il mio nome, senza fargli sapere chi fossi.
Andai via lasciandogli solo le mie parole.
Un po' buttate di getto,
forse stupide,
magari insignificanti, ma pur sempre mie.
Gliele lasciai tra le mani sperando le custodisse gelosamente fino al prossimo incontro.

Un cuore per dueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora