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Se avessi una manciata di secondi in più, forse riuscirei a raccogliere un po' di coraggio per invitare quel ragazzo a unirsi al nostro gruppo. L'avevo già visto, sempre da solo, seduto al bar appena fuori dal cancello, ma non pensavo studiasse qui anche lui.
Ma il tempo scorre troppo in fretta e all'improvviso la voce di Giorgio spacca la quiete del chiostro: «Ehi, Ale, c'è qualche bel pinguino lì fuori? Perché qui, se non chiudi quella porta, fra poco ne arriverà un branco intero.»
Il ragazzo si volta.
Dal momento in cui incrocia il mio sguardo mi rimangono all'incirca tre secondi di dignità: tutto quello che riesco a fare è rivolgergli un sorriso impacciato prima di tirare la testa all'indietro con l'eleganza di uno struzzo.
A volte, sapere che possiedo almeno una delle caratteristiche che spesso e volentieri la gente associa ai musicisti (ovvero una scarsa, se non inesistente, disinvoltura sociale) quasi mi rassicura. In mancanza di un talento geniale e di una personalità spiccata, è l'unica cosa che mi fa sperare di trovarmi nel posto giusto.
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Scrissi queste righe anni fa, quando ero ancora troppo timida per riuscire a parlare con i ragazzi e speravo di farcela almeno tramite i miei alter ego letterari.
Ieri, il ragazzo solitario che mi aveva ispirata per questa piccola scena se n'è andato. Aveva la mia età - 26 anni - ed era un pianista eccezionale. Il destino, alla fine, ci aveva fatti incontrare davvero, al di fuori del Conservatorio e per motivi di lavoro, ma oggi vorrei ricordarlo per com'era prima di ammalarsi: cento volte più timido di me, con quel suo sguardo sfuggente e le guance sempre sul punto di arrossire.
Ciao, Anto