Sono nato a Genova nell'autunno del '77, e mi piace pensare che il vento freddo e salato di della mia città, in quella stagione mi abbia sempre seguito. Cresciuto tra periferia e caruggi, ho imparato presto a osservare il mondo con un occhio attento, forse per via di mio padre, che mi ha insegnato la bellezza di raccontare storie, o di mia madre, che mi ha passato l'amore per la lettura. Il primo libro che ricordo davvero di aver amato è stato Viaggio al Centro della Terra di Jules Verne. Da lì non ho mai smesso di leggere e scrivere. La penna è stata sempre una specie di rifugio, un modo per mettere ordine nei pensieri.

Ho sempre cercato di imparare tutto quello che potevo, ma in fondo non mi sono mai sentito legato a un percorso preciso. Ho studiato qua e là, ho preso quello che mi interessava da ogni scuola, e poi ho trovato una strada che forse non era perfetta, ma era mia. Ho cominciato come autista di ambulanze e soccorritore, anche volontario per un periodo. Quel lavoro ti segna, ti cambia, ti costringe a vedere la vita per quello che è, senza filtri. E forse è lì che ho capito che raccontare storie era il modo migliore per dare senso a tutto quel caos.

Poi, dopo un po', ho trovato il mio posto dietro il bancone di un bar. Da vent'anni ormai, solo lì dietro mi sento al sicuro. Ogni persona che entra ha una storia, e molte volte sono io a tirargliela fuori, anche se non se ne rendono conto. In un certo senso, fare il barista è come essere un narratore: ascolti, osservi, impari. E alla fine, costruisci qualcosa, anche se sono solo cinque minuti di conversazione.

Negli ultimi anni, però, mi sono detto che era il momento di prendere sul serio la scrittura. Ho autopubblicato due libri su Amazon, L'Erede e Quaalude, e ho lavorato a un progetto che mi sta particolarmente a cuore, Cocktail Partigiani, un mix di parole e immagini con dieci bravissimi disegnatori. È stato un progetto collettivo, intenso, ed è uscito con la Ets di Pisa.