La lettera

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In The Woods Somewhere, Hozier.

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Non accadeva da appena tre mesi.
Per tre mesi la mia mente aveva mantenuto la lucidità che, negli ultimi tempi, l'aveva progressivamente abbandonata. Nessun episodio, così avevo imparato a chiamarli, nessuna crisi che contaminasse i sensi e mi trascinasse in una nube folle e oscura.
Ma poco dopo aver congedato i signori Campbell e Hilda come di consueto, avevo richiuso la porta della camera da letto e avevo lasciato fuori le sue mura anche me stessa.
Prima che potessi aggrapparmi al loro aspetto spoglio, le pareti scomparvero e vennero sostituite da una maestosa successione di alberi e dai saturi colori dell'estate.
L'erba carezzava i miei piedi scalzi, il vento rapiva le foglie e le scuoteva con infinita dolcezza, l'odore dei fiori infestava le narici. Ogni componente di quel paesaggio irreale mi infondeva una pace straordinaria, sfumando nell'indeterminatezza di contorni che rilucevano con un'intensità vivida.
Non c'erano emozioni nella mia quieta passeggiata; solo una calma armoniosa che mi faceva sentire serena.
Mi spingeva una strana consapevolezza di dover procedere nel mio cammino, addentrandomi ancor più in profondità in quel bosco fiabesco.
Mi lasciai soggiogare da quella sensazione con una forza che non mi apparteneva, la voglia di raggiungere la sua fonte si faceva sempre più viscerale.
Avanzai ancora, calpestando un oceano di foglie secche. Il paesaggio ora mostrava un aspetto autunnale, e mi concessi del tempo per esaminare la distesa rossa e arancione dinanzi a me.
Il crepitio delle foglie sotto i miei passi era accompagnato dall'aumento della rapidità con cui esse si staccavano dagli alberi.
Più procedevo, più la loro caduta si faceva violenta, e la calma venne presto sostituita da una confusa preoccupazione.
Le foglie coprivano la mia visuale, si scagliavano sulla mia testa e alcune graffiavano le braccia con cui tentavo di proteggerla.
Camminai più velocemente, cercando un riparo, ma la mia solerzia sembrava solo esasperare la collera delle foglie e abbassare la temperatura dell'ambiente che mi circondava.
Un suono angosciato abbandonò le mie labbra mentre mi strinsi il viso, nascondendo una smorfia di dolore.
Poi, improvvisamente, tutto cessò. Tirai un sospiro di sollievo e scacciai via i segmenti scuri che mi avevano macchiato la pelle.
Alzai lo sguardo e vidi gli alberi appesantiti dalla neve. I miei piedi si irrigidivano al contatto con la sua superficie, e il sangue ne contaminava il candore.
Il gelo disegnava la sua fermezza sulla mia schiena e la piegava con la sua furia.
Continuai il mio percorso incerto, il vento angosciante mi si infilava con forza nelle orecchie. Respiravo a fatica, una forte nota di terrore mi strinse lo stomaco. Tentai di scostare lo sgomento, ma lo sforzo non fece che accrescerlo. Poi di tornare indietro, ma le gambe non rispondevano.
Più provavo a fuggire, più la corsa mi spingeva avanti con prepotenza. I muscoli si tesero, opponevano resistenza invano mentre il freddo ne rallentava il funzionamento.
Gli alberi sembravano curvarsi per inghiottirmi e il ghiaccio plasmarmi al suo stato immobile.
Guardando le mie braccia, vidi una patina bianca rilucere tra i toni gelidi.
Di colpo, il mondo crollò con una vistosa giravolta. Un dolore lancinante mi colpì una gamba e scivolai su una lastra di ghiaccio, emettendo un gemito di dolore.
Raccolsi ossigeno con urgenza, guardandomi intorno con una smorfia di terrore e gli occhi spalancati.
Mi trovavo su un lago congelato, immerso nel buio, attorno a me c'era solo un oblio inesorabile.
Chiusi le palpebre e lasciai che i battiti del mio cuore rallentassero, infine mi portai una mano al petto cercando di riacquisire la normale scansione del respiro.
Accadde tutto così in fretta che a stento mi accorsi dello scricchiolio che la crepa aveva fatto esplodere nell'aria. La superficie si infranse sotto di me, inghiottendomi nelle sue acque glaciali.
Solo allora mi risvegliai di colpo, succube di un sogno ricorrente e tormentante, soffocando un urlo.
Mai come in quell'istante le immagini mi avevano rapito corpo e anima. Mai le pareti della stanza mi erano sembrate così reali nell'inghiottirmi in quell'allucinazione che mi toglieva il fiato.
Nessuna goccia di sudore poteva esprimere quanto in quel frangente fosse faticoso produrre ogni più misero movimento.
Ogni ansimo mi ripeteva che quella era la prova tangente che avevo ormai perso il senno. Un brivido aggredì la mia schiena, contorcendola in avanti.
Chi custodisce in silenzio la devastazione del proprio crollo non ha mai il privilegio di sentirsi appartenere a una realtà che lo trova tanto sconveniente.
Era la realtà stessa, infatti, ad avermi rigettata e incarcerata in un incubo sempre più crudele.
È spietato il destino di chi ha amato e perso con tutto se stesso, poiché dopo la perdita, mantenendone il ricordo in vita, lascia che il proprio si consumi rovinosamente.
Una sola consapevolezza orbitava nella mia mente in bilico tra due mondi: la figura della ragazza provata che dovrei sentire vicina a me attraverso il riflesso dello specchio, il cui torace si muoveva con affanno, mi sembrava ormai una sconosciuta indegna persino del suo vero nome.

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