Compagnie difficili

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L'innata delicatezza della mamma era solita diffondersi sui miei capelli corti e acconciarli in una piccola treccia.
Da quando avevo memoria, la semplicità di quel gesto era sempre stata in grado di donarmi un profondo sollievo durante i momenti di sconforto.
Aveva cominciato quando ero piccola, per distrarmi dalla ragione che mi aveva portata a ridurmi a singhiozzi nel bel mezzo del giardino di casa.
E da quel momento aveva ripetuto quel gesto dolce ogni volta che ne avevo sentito il bisogno.
Si avvicinava piano, accarezzandomi la cute e ripetendomi che sarebbe andato tutto bene.
Dividendo le ciocche, lasciava che la sua voce armoniosa animasse le pareti con una lenta melodia.
Non si poteva certo dire che le parole fossero rassicuranti, avevamo spesso riso riflettendo sul loro significato.
E ogni volta la sua giustificazione era che l'aveva scelta in un momento di panico; vedendomi piangere, in un fermento di confusione, era stata la prima cosa che le era venuta in mente.
In seguito si aggiunse anche papà. Si fece insegnare da mamma come ricreare la capigliatura e quando apprese il procedimento in maniera dignitosa la sostituì numerose volte.
Lui non cantava, mi distraeva con i racconti delle sue avventure, riscaldandomi il cuore con il desiderio di emularle.
«Un'esplosione di colori, Amy. Ecco cos'era. Danzavano nel cielo e non consentivano a nessuno dei presenti di distogliere lo sguardo» spiegò una volta, descrivendo una meravigliosa aurora boreale. Infine mi disse: «Guarda sempre il mondo dritto negli occhi e lui saprà come investire i tuoi con una bellezza ineguagliabile».
Adesso che i miei capelli erano cresciuti, lunghi fin oltre le spalle e come mai prima d'ora, l'assenza delle loro attenzioni sembrava sottrarre un po' della loro lucentezza.
Da piccola non facevo che lamentarmene: li volevo corti, proprio all'altezza delle clavicole, perché li vedevo come un'intralcio.
Correre e arrampicarsi, d'altronde, non risulta affatto facile quando si possiede una lunga chioma a ostacolare la tua visuale. E un tempo, rammentai, era tutto ciò che desideravo fare.
Ormai, invece, non rappresentavano più alcun fastidio.
E le parole del signor Darroch mi canzonarono nello stesso modo in cui avevano fatto la sera precedente, mentre fissavo con disgusto la mia figura allo specchio.
Mi sembrava di scrutare il mio corpo da lontano, di osservare il mondo attraverso una lente rotta e appannata.
Ogni utensile riposto all'interno dello zaino mi provocava un malessere sempre maggiore e mi scuoteva il petto.
Più si avvicinava la mia partenza, più mi domandavo cosa mai avrebbe potuto generare un viaggio con lo scorbutico padrone di casa.
Senza neanche riflettere, spinta ora più di qualsiasi altro istante dalle critiche che lui stesso aveva mosso nei suoi confronti, mi ritrovai a soffermarmi sull'ultimo oggetto.
Erano trascorsi alcuni giorni dall'ultima volta che lo avevo letto, la copertina di Ombra e luce sapeva sempre come stregare la mia attenzione.
Percorsi i bordi in rilievo con un dito, lo feci fino a quando non venni interrotta a distanza di pochi attimi da un leggero bussare alla porta.
La signora Dunn mi indirizzò un tenue sorriso quando incontrai il suo sguardo, appena dietro allo stipite della porta.
Mi affrettai a ricambiare il saluto e, quando le comunicai con cenno che poteva entrare, avanzò piano verso di me.
«Posso esservi d'aiuto, mia cara?», la sua premura dimostrava ancora di non lasciarla nemmeno per un istante.
Mi preoccupai di ringraziarla per la disponibilità, dicendole che non era più necessario.
A quel punto, drizzò gli occhi scuri sul romanzo che stringevo tra le mani, e li vidi cedere parte della loro intensità mentre rigirava un angolo della sua gonna in modo spasmodico.
La confusione mi turbò per l'ennesima volta.
Cosa rendeva quella leggenda così pericolosa per gli abitanti di Dreich?
D'altronde, anche dall'altra parte ne avevamo a bizzeffe.
Racconti di ogni genere che superavano le barriere del tempo, storie apprezzate e tramandate a gran voce.
Eppure, quella del Prigioniero dell'ombra era una favola da diffondere in un sussurro illecito. Una narrazione che tutti conoscevano ma che nessuno doveva assecondare.
Il motivo, tuttavia, rimaneva ancora sconosciuto, tanto che non riuscii più a trattenermi.
«Perché non si parla più di questa storia? Cosa la distingue da qualsiasi altra?»
Le mie parole sembrarono risvegliarla d'improvviso, mi guardò interdetta e con la bocca schiusa.
«La stessa cosa che allontana la sua città di origine e i dintorni da ogni luogo dell'altra parte» pronunciò dopo alcuni istanti trascorsi in silenzio. «Dreich è spaventosa come lo sono tutte le condanne. Dreich è il Prigioniero dell'ombra».
Le sue parole non fecero che accrescere il mio turbamento.
«E il Prigioniero dell'ombra è di conseguenza lo specchio di una cittadina sfortunata sin dal principio, l'incapacità dei suoi abitanti di impedire che la sua atmosfera cupa influenzasse la loro natura. È una cicatrice vergognosa, una macchia sentita e sofferta da troppo tempo. A spaventarmi sono coloro che quasi sacrificano la loro identità pur di disfarsene» spiegò quasi in un bisbiglio.
Corrucciai la fronte, domandandomi come potessero credere che si trattava di una maledizione reale.
«Esistono alcuni gruppi di estremisti che donano a Einar offerte e rituali, lo pregano di ridare loro la libertà».
Scossi la testa, contrariata. A quel punto non riuscivo più neanche a considerare l'esistenza di un Dio, la sua spiegazione appariva fin troppo assurda.
Il suo viso, notai, era piegato e spento da una rigidità che non le avevo mai visto addosso in quel modo.
«Alcuni sostengono che sia ancora vivo e che continui il suo esilio oltre le mura di Dreich, nascondendosi con delle sembianze diverse. Dicono di avergli visto le tenebre negli occhi e la scomunica nello spirito, o qualche follia simile. Sono spietati e meschini come può esserlo soltanto qualcuno di queste parti, è l'unica cosa in cui credo della leggenda. La cattiveria è incastonata nella loro anima e a quella non c'è modo di sfuggirvi».
I suoi pugni tremarono in una stretta furibonda.
«Per una vita l'hanno riversata su di lui. Lo hanno accusato, diffamato, frainteso... lo hanno dipinto con così tanti colori che non gli è stato possibile individuare quali fossero i propri».
Dopo una lunga pausa, riuscì a ricomporsi per tornare a concentrarsi su di me.
«A Sentieri Nascosti questo racconto è più proibito di qualsiasi altra dimora» sospirò. «Quando vi ho vista leggerlo nel salotto ho temuto seriamente che Axel sarebbe esploso e ve lo avrebbe strappato via».
Annuii in silenzio, avevo capito che quel celebre mito sapeva infastidire il padrone di casa in un modo peculiare.
«Ma non è colpa sua, signorina. Chiunque lo odierebbe al suo posto. D'altronde lo perseguita da tutta la vita...»
E proprio quando ero arrivata al culmine dello smarrimento, compresi il motivo della rabbia che l'aveva avvinghiata fino a quel momento.
Capii il delirio dell'anziano signore e la reazione della sua vittima, l'origine della smorfia del signor Darroch mentre leggeva per la prima volta il titolo del mio romanzo.
Ognuno di quegli avvenimenti possedeva delle radici molto più profonde di quanto avevo immaginato fino ad allora.
«Lo dicono da sempre» incespicò caricando il dispiacere sui denti. Poi confermò quello che avevo sentito quella notte a Dreich: «Per loro il Prigioniero dell'ombra è Axel».

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