Avevo il fiato quasi bloccato e il cuore ferito, riuscivo persino a sentirlo battere in modo più lento, cosa strana vista la situazione in cui mi trovavo.
Avrebbe dovuto galoppare, pompare e minacciare di esplodere, ma non aveva le forze, era troppo distrutto.
Ilya, tutte quelle persone e infine... Mark.
Non riuscivo a preoccuparmi per me stessa, anche se l'aveva detto chiaramente che sarei stata la prossima o, forse, cercavo di non focalizzarmi su quello che mi attendeva.
Mi guardai intorno in modo lento, come se non fossi io quella che soltanto qualche istante prima era scivolata via dalla presa della morte.
Poggiai i palmi sul pavimento impolverato e con una leggera spinta mi costrinsi a tornare in piedi. Mi trovavo in mezzo a quello che doveva essere uno studio: qualcosa legato alla scultura, o almeno questo era ciò che il mio occhio inesperto riuscì a captare in una situazione ben lontana dall'essere perfetta.
Mi massaggiai il sedere indolenzito mentre tre sagome, che a fatica riuscivo a distinguere a causa della luce spenta, continuavano a trascinare di tutto pur di barricarsi ancora di più.
"Grazie per aver invitato la morte in casa nostra, Margaret."
Tuonò una voce molto profonda da uomo mischiandosi al trambusto, facendomi stringere nelle spalle, colpevole.
In quelle poche parole riuscii ad afferrare il fastidio, la paura e il pentimento di aver aperto la dannata porta di legno aggiungendosi anche loro alla listadi quegli assassini.
Chissà cosa avrebbe scelto un altro tra rimanere a osservare come il proprio giardino veniva imbrattato del sangue altrui, oppure invitare in casa le vittime con la consapevolezza che quello sarebbe potuto diventare l'ultimo giorno della sua vita.
"Mi dispiace..."
Rispose Liz con voce strozzata dal pianto, prima che riuscissi a sputare fuori almeno una sillaba. I miei occhi si abituarono al buio e riuscii a capire che le parole provenivano dalla mia destra: era lei a spingere un vecchio tavolo che provocava dei rumori insopportabili sul pavimento molto simili a quelli delle unghie sulla lavagna, fino a mantenere saldo l'armadio che copriva l'entrata.
"Mi dispiace così tanto..."
Singhiozzò, di nuovo, e io mi sentii ancora più rotta dentro.
Distrutta, ferita, colpevole.
Se soltanto avessi scavalcato quel dannato cancello più in fretta, lui sarebbe ancora qui.
L'immagine del sangue di Mark che colava dalla sua bocca imbrattando i vestiti e la punta del coltello tornò a offuscarmi la vista.
I piccoli colpi di tosse strozzati mi inondarono le orecchie di prepotenza.
Il suo ultimo respiro soffocato, prima di chiudere gli occhi per sempre.
"Così tanto..." aggiunse, di nuovo, e a strozzarsi stavolta fu lei, nelle sue stesse lacrime.
Spingeva, tirava, trascinava e piangeva.
Piangeva e piangeva mentre davanti ai miei occhi c'era ancora il mio migliore amico, il viso incrinato dalla sorpresa e dal dolore.
C'era lui, ancora buttato davanti al cancello come spazzatura.
Era stato pugnalato a causa mia e io l'avevo abbandonato.
Lui non l'avrebbe mai fatto con me.
Si è sempre preso cura della sua amica d'infanzia troppo menefreghista.
Mi aveva protetta, amata, sostenuta e io l'avevo lasciato lì, sanguinante e in preda a sofferenze atroci.
E se fosse stato ancora vivo?
Stava morendo dissanguato mentre io ero al sicuro.
"Devo andare a prendere Mark," dissi, sottovoce.
Il pianto di Liz cessò di colpo, qualcuno lasciò cadere a terra un oggetto di ferro che rimbombò e infine una luce per poco non mi accecò.
Forse, da qualche parte dentro di me sapevo già che era morto, ne ero consapevole, ma accettarlo non sarebbe stato così facile.
Nemmeno riuscivo a comprendermi, stavo delirando oppure ci credevo veramente alle parole pronunciate con decisione?
"Mi sembra giusto, abbiamo aperto loro la porta rischiando di farci sventrare, ora come minimo dobbiamo farle strada verso l'uscita e dare il benvenuto a quegli psicopatici decerebrati."
Sbattei le palpebre ripetutamente e guardai verso la voce di prima che finalmente prese un volto. Un uomo alto e robusto, sulla sessantina o poco più, dagli occhi più scuri della notte e i capelli più bianchi della neve, le braccia incrociate sul petto e un piede a scalciare una chiave inglese.
Spostai lo sguardo su Liz, ignorando la risposta dell'uomo.
Aveva i capelli spettinati e le guance rosse rigate da numerose scie nere. Gli occhi gonfi rimasero fissi nei miei, quasi a voler capire se la mia affermazione fosse seria o soltanto uno sclero momentaneo.
"Io non posso lasciarlo lì."
Soffiai fuori le parole mentre le palpebre di Liz tremarono insieme al mento ancora umido a causa delle lacrime.
Scosse la testa lentamente e si morse il labbro inferiore con troppa forza.
" È Mark..." piagnucolai senza voce.
"Cara," una mano mi sfiorò la spalla con delicatezza e sussultai, spaventata.
Mi ero dimenticata della terza persona presente in quello studio che, a luci accese, sembrava uno scantinato. C'erano un mucchio di scatole, tavoli coperti da lenzuola bianche, libri abbandonati, due statue anonime, qualche poltrona sommersa da vestiti e sacchetti colmi di roba.
"Guardami."
La donna minuta si spostò davanti a me e mi guidò il viso fino ad allacciare gli occhi ai suoi, di un verde molto accesso e ancora più marcato grazie ai capelli scuri che facevano contrasto.
"Tesoro, non credo che tu possa fare qualcosa per quel povero ragazzo," aggiunse, passando il palmo caldo sulla mia guancia.
Liz tirò su con il naso e pianse di nuovo, ma internamente, cercando di soffocare i singhiozzi.
"Avrà già esalato il suo ultimo respiro."
L'uomo parlò ancora e mi investì con una secchiata ghiacciata di consapevolezza.
Entrai in uno stato confusionario, proprio nel momento meno opportuno.
Ero in trans, non capivo, mi rifiutavo di farlo.
Era troppo irreale, crudele, doloroso e irrimediabile per essere vero.
La prima a colpire fu l'ipotesi che tutto l'accaduto fosse soltanto un sogno. Uno scherzo malato del mio cervello dalla fissazione insana per gli horror.
Avevo sempre pensato a come sarebbe stato far parte di uno di quei film.
Era bello stare davanti alla tv e cercare vie d'uscita ovvie che i protagonisti non trovavano mai, ma se fossi stata una di loro?
Quali scelte avrei preso?
Sarei sopravvissuta?
Mi sarei vendicata?
Oppure sarei stata una della prime a cadere?
No, quello doveva essere per forza un sogno, nessuno sarebbe stato in grado di tanta crudeltà soltanto per sentirsi soddisfatto.
Mi appellai al mio subconscio, come tutte le volte in cui ero in dormiveglia e un sogno mi faceva troppa paura.
È ridicolo anche semplicemente ricordarlo, ma ognuno di noi reagisce in modo diverso quando si trova davanti a situazioni irrimediabili.
Mi abbassai di poco e portai la mano dietro il ginocchio destro sotto lo sguardo confuso di tutti. La cicatrice causata da quel morso di cane, che di solito nei sogni dimenticavo come se non fosse importante, c'era.”
Dannazione, era tutto vero.
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