Sedei alla mia scrivania, il mio nome "Preside Muller" ben in vista, e la sistemai togliendo le cartacce e rimuovevo la polvere provando a soffiarci sopra. Dopo aver terminato il mio breve lavoro di pulizia afferrai un foglio dalla pila al mio fianco, il nome di una mia studente scritto in stampatello su di esso "Tania Petrovsky". La nostra studentessa bielorussa di scambio. Era la sesta volta che mi vedevo costretto a convocarla. La situazione era ingestibile.
I genitori erano sempre più arrabbiati ma invece di prendersela con la ragazza, indubbiamente assumendo un comportamento sbagliato, sfogavano il loro rancore e la loro frustrazione su di me e sugli insegnanti. Costringevano la loro figlia "prodigio" a orari impraticabili, lasciandole sempre più compiti e responsabilità e senza lasciargli tempo per se stessa da adoperare come voleva perché avevano paura che tentasse il suicidio come sua sorella. Già quando mi confidò questa cosa avevo dei sospetti generati dal suo comportamento, sempre distante, triste, affaticata e ansiosa. Avevo contattato lo psicologo della scuola e informato i genitori ma il problema persisteva, con Tania che saltava gli appuntamenti e i genitori che non la lasciavano andare. I genitori non sembravano riconoscere il problema, tantomeno di esserne la causa.
Le sfuriate del padre, sostenuto dalla moglie, che sostenevano che il problema fossero i professori (compreso anch'io) e i parenti. Anche i "parenti" e il nonno non era che fossero molto meglio, trattavano la ragazza come una pezza e non la consideravano all'altezza del resto della famiglia. L'unica persona che avevo visto seriamente occuparsi e preoccuparsi per lei in quella famiglia era la sorella, la suicida, che era stata salvata a sua volta da quel calvario dall'anima pia di quello che è oggi il suo fidanzato, davvero un bravo ragazzo ma qualche volta esagerato nei comportamenti. La sorella al momento viveva a casa del fidanzato con i genitori di lui. Anche oggi, come le cinque volte precedenti, ero alla mia scrivania ad aspettare che arrivassero. Non udii neanche la lieve pioggerellina prima che arrivasse la tempesta che arrivò spalancando le porte. Non ebbi neanche il tempo di formulare un saluto decente che il padre mi fu al collo. Mi ricoprì di insulti e quando la figlia provò a fermarlo la schiaffeggiò per poi sputarmi in faccia. Avevo sorvolato su molte cose ma quel comportamento era inaccettabile.
Successivamente provvedei a chiamare il telefono azzurro e rendergli presente la situazione ma in quel momento mi spaventai a morte. Il padre era un uomo alto, con la corporatura di un armadio sotto steroidi e la grinta di un toro da corrida pronto ad incornare un matador distratto. Avevo paura di ciò che avrebbe potuto fare, più per la ragazza che per me. La moglie al contrario del marito sedeva immobile senza fiatare né muovere un muscolo. Dopo quasi un'ora passata ad urlare il padre si calmò ed uscì dall'ufficio e dalla scuola trascinando la moglie e la figlia, fulmineo come era entrato. Mollai la presa sulla sedia e tirai un sospiro di sollievo, ma non avevo niente di cui sollevarmi, quella ragazza doveva comunque convivere con quel mostro di padre. Molti dicono che il padre nella famiglia deve essere la figura autoritaria, colui che porta i pantaloni, ma lì non ci vidi autorità, solo rabbia e malcontento. Forse sono cieco, o forse solo sano di mente.
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One-shot Countryhumans (Richieste Aperte Per Ora)
Short StoryAttenzione: La lettura è sconsigliata a un pubblico che soffre di depressione per via di tutta la tristezza contenuta in questo libro. Non sono il massimo ma proverò a creare qualcosa di carino.