Prologo

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Un gran rumore, non sento più le gambe, non sento le braccia, un buco nero davanti ai miei occhi, in fondo c’è una luce brillante, poi più niente, e voi, voi chi siete? Ma questa musica è nella mia testa o no? E ora che strano suono…Tic tac… tic tac…

I treni entrano silenziosi in stazione. Arrivano velocissimi e sembra che non si fermeranno mai in tempo. All’ultimo momento però tac!, si stoppano nel punto previsto, con il numero di ogni carrozza corrispondente a quello indicato dall’insegna luminosa. In testa al binario una calca di gente aspetta la discesa dei passeggeri.Man mano che ci si avvicina all’atrio il rumore delle voci cresce sempre più. Un ragazzo rasato, capelli biondi tirati all’indietro, con una mano stringe il telefonino e con l’altra si tappa un orecchio: “Non ti vedo, dove sei?”, chiede con voce concitata. Una donna arriva correndo con un cagnolino in braccio, lo molla a un’altra donna più anziana e cerca di recuperare il cellulare che le sta squillando in tasca. Due cinesini, con delle grosse sporte sottobraccio, camminano veloci lungo la banchina. Un gruppo di ragazzi scalmanati batte le mani sui tamburi. Più in là, un’altra ventina di adolescenti americani, con addosso la stessa divisa, attorniano il mister che in un inglese strascicato del Sud dà loro istruzioni sul programma della giornata.La stazione è tutto un brulicare di gente e di voci.

Francesca, alta nel suo Armani di ordinanza, fende in fretta la folla. Un ricciolo nero le sfugge dalla pettinatura strutturata, le taglia la guancia dandole un’aria sbarazzina che contrasta con il resto della sua figura. Accelera il passo, quasi corre Francesca. Di tanto in tanto si blocca per dare una rapida occhiata alle vetrine piene di offerte, poi accelera di nuovo. Guadagna l’uscita della stazione e rapida raggiunge il bar all’angolo dal curioso nome Caffè Trombetta.Seduta fuori, a uno dei tavolini, c’è una donna con una folta chioma rossa. Impossibile non notarla. Alza un braccio a mo’ di saluto.Per tutta risposta, Francesca esclama sbuffando: “Basta! È stupido continuare a incontrarci qui, in questo posto assurdo e con un nome ancora più assurdo.”

 “Ciao Francesca”. Marie Thérèse butta all’indietro una ciocca rossa di capelli. “Dai. È una tradizione, e la tradizione va rispettata.”

 La chioma rossa di Marie Thérèse sfiora le sue spalle delineate, ben definite da tutti gli sport che ha praticato durante la sua vita.

 Una biondina minuta, leggermente appesantita dall’età, ma sempre piacente, arriva alle spalle delle due donne.

 “Ce l’ho fatta. Questa volta i gemelli proprio non mi volevano far partire, ma ce l’ho fatta ancora una volta. Sono stravolta.”

 “Roberta! Ma stai benissimo!”, le fa Marie Thérèse voltandosi.

“Assolutamente sì”, conferma Francesca.

“Quando ti ho vista al Forte, a Natale, mi avevi spaventata per quanto eri sciupata. Ma vedo che ti sei ripresa”, continua dandole un’ulteriore occhiata di apprezzamento.

“Sì? Grazie. È stato un inverno duro. Ma finalmente me lo sono lasciato alle spalle.”

“Non solo per te”, interviene una seconda bionda che ha raggiunto il gruppetto.

“Angelica!”, esclama ancora Marie Thérèse.

Noi ancora una VoltaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora