Sono passati più di vent’anni da quella torrida domenica di agosto in cui ho sentito la tua risata per la prima volta e ne hai fatte di risate, da allora. Mi sei entrato dentro e hai messo radici nei miei sentimenti, mi hai spezzato il cuore in mille frammenti che ho tentato di raccogliere per anni, nel tentativo di ricostruire il mosaico della mia vita, invano.Amico mio, ti ho tanto amato ma un giorno, finalmente, ho smesso.
Era inverno e nevicava. Tremavo dal freddo stretto nei miei vestiti felpati, anche se qualche raggio di sole filtrava attraverso la fitta coltre di nubi.
All’improvviso, una risata argentina ha spezzato l’atmosfera lugubre, colorando il paesaggio, lugubre, ma non era la tua.
Tua figlia è venuta di corsa verso di me che l’aspettavo, si divertiva ad alitare nuvolette di condensa e, quando mi ha visto, i suoi occhi hanno iniziato a brillare. Mi ha travolto in un abbraccio d’uragano e mi ha gettato per terra, farfugliando il mio nome. Aggredito e sconfitto, mi sono sentito felice per quell’affetto sovreccitato.Patetico, eh?
Mi son chiesto se non fosse l’istinto paterno sopito in me, ma ho subito scacciato il pensiero, perché sapevo benissimo che la verità era un’altra: quella bambina mi piaceva tanto perché c’era una parte di te, in lei. Mi sono ripreso, le ho dato un bacio sui capelli e ho tentato di tirarmi su.
Tuo figlio è arrivato più calmo, con la tipica flemma degli adolescenti, e mi ha salutato sbattendo le nocche contro le mie, da veri uomini. Faticavo spesso a guardarlo negli occhi, perché ci riconoscevo il tuo stesso sguardo. Mi sentivo in imbarazzo al ricordo di quello che avevo provato anni fa, guardando quelle stesse iridi profonde.
Sempre più patetico!
La piccola saltellava sui miei alluci, così l’ho presa in braccio per salvare le scarpe, poi ho guardato di fronte a me e tu eri lì. «Ecco il mio uomo», ho pensato, e la cosa mi ha fatto sorridere.
Anche tu stavi sorridendo mentre mi venivi incontro e allungavi la mano, che io ho stretto forte. Mi sono sporto verso di te e ho posato le labbra contro la tua guancia, sulla barba di due giorni, in un bacio asciutto. Hai riso vicino al mio orecchio e hai fatto una battuta sul fatto che fossi l’unico uomo al mondo a cui era permesso salutarti così. Mi si è gonfiato il petto d’orgoglio per quel trattamento speciale e ti ho posato la mano sulla spalla, stringendo un po’ sulla stoffa del giubbotto imbottito.Poi, è arrivata tua moglie.
Ce ne ho messo di tempo per accettarla. Lei, la donna col velo che ho maledetto all’altare, quella che hai scelto. Mi si è avvicinata e mi ha abbracciato, mentre i suoi capelli mi hanno fatto solletico al naso. Tua figlia le somiglia in tante piccole cose, ma soprattutto nel taglio degli occhi e nella pienezza delle labbra. Mi ha dato un bacio sulla guancia e si è ripresa la bambina scalpitante, poi è andata via seguita dal più grande, per lasciarmi da solo con te. L’ho sempre apprezzata per questa sua delicatezza, forse dovrei dirglielo, sai, prima o poi.
Mi sono sempre chiesto se le hai detto di noi. Ma cosa c’è da dire, in effetti? Del mio amore disperato e della tua comprensione? Dell’amicizia dolorosa che ci lega fin da ragazzini, ma da cui siamo dipendenti come una droga? Meglio lasciar perdere i panni sporchi, forse.Quel giorno di dicembre ti ho guardato dritto negli occhi e ho ritrovato, dopo tutti quegli anni, il tipo timido del centro commerciale, lo spavaldo di fronte all’albero di Natale in centro, lo studente modello agli esami di Stato, l’amico del pomeriggio col sole, il disperato del bar e l’ubriacone del post-esame. Lo stesso cretino di allora e di sempre.
Ho seguito con gli occhi il contorno della tua bocca, ricordando quel momento in cui l’ho baciata nel buio della mia camera mentre sapeva di alcool e sangue, e sono risalito fino ai tuoi occhi dolci, con le sopracciglia corrucciate.
