CAPITOLO 2

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Da quando mi ero trasferito a Parigi, avevo iniziato a lavorare in un ristorante caotico e pittoresco affacciato sulle rive della Senna: il Petit Marbueff.

Lo gestiva un uomo rude e schivo, tale Gaston Tenet, insieme ad altri tre camerieri.

Il Petit Marbueff era un locale sempre affollato e con una lunghissima storia alle spalle. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento era stato frequentato da molte personalità celebri, come Henri de Toulouse-Lautrec, Henri Matisse, Salvador Dalì, Ernest Hemingway.

I suoi clienti abituali erano parigini che amavano la danza e il bel canto. La maggior parte di loro si divertiva ad ascoltare vecchie canzoni a pianoforte o a ballare sulle note di famose melodie della tradizione francese.

Da quando ero stato assunto in quel posto, avevo preso a lavorarci tutti i giorni, dalla mattina alla sera, dal lunedì al sabato, senza interruzioni.

Di mattina i clienti che arrivavano erano perlopiù gente di passaggio, che veniva soltanto per leggere il giornale o per bere un caffè al volo prima di andare a lavoro. Ma la sera era diverso. La sera il Petit Marbueff diventava un punto di ritrovo per moltissima gente che amava far rivivere certe tradizioni parigine. Ovunque si vedeva gente seduta ai tavoli, e poi danzatori, disegnatori, musicisti, cantanti.

In quel frangente io e Maurice lavoravamo al banco come soldatini, servendo soprattutto bevande alcoliche. Non si poteva mai tirare un attimo di respiro. E se ciò accadeva, Gaston Tenet trovava sempre il modo per fartela pagare. A volte, dopo il turno serale, ero talmente sfinito che facevo fatica persino a raggiungere il mio appartamento al numero 62 di Rue de la Gaîté. Allora riuscivo a trascinarmi a malapena fino alla mia stanza, dove finivo puntualmente per addormentarmi sul letto, con gli abiti di lavoro.

Con tutto quell'andirivieni e quei ritmi di lavoro così estenuanti non è difficile immaginare come mai fossi rimasto così tanto indietro con il programma del corso. Da quando era iniziata la stagione estiva e Gaston aveva modificato l'orario dei miei turni, il tempo per studiare era diventato davvero poco, quasi inesistente.

Questo Theodore Lacroix ovviamente non poteva saperlo: ignorava qualsiasi cosa riguardasse la mia vita al di fuori di quelle mura. Man mano che l'esame si avvicinava, era diventato sempre più esigente e puntiglioso, pretendeva da tutti il massimo impegno possibile.

Io, anche se tra mille difficoltà, mi ero sempre sforzato di dare il massimo. Pur di sottrarre meno tempo possibile allo studio, evitavo persino di tornare a casa tra un turno e l'altro. Ciò nonostante sembrava che quello che facessi, non bastasse mai. Negli ultimi tempi la mia situazione era radicalmente peggiorata, il rendimento era diventato disastroso, nonostante i miei sforzi per rimettermi in pari con il resto della classe.

Avevo comunque evitato di mettere al corrente Marco della mia situazione. Non volevo che si preoccupasse per me, inutilmente. In quel periodo era molto preso dagli affari del ristorante, e poi c'era anche di mezzo la storia di Igor Kauffman. Non volevo aggiungere altra carne al fuoco. Alle volte evitavo persino di rispondere alle sue telefonate pur di non tradirmi.

Una situazione, questa, che a lungo andare aveva finito per infiacchire ancora di più il mio umore. E di riflesso anche il mio corpo.

Se mi guardavo allo specchio, quasi non riuscivo a riconoscermi: gli occhi erano diventati più incavati, il viso più affusolato e spigoloso, mentre i capelli, per un curioso scherzo del destino, erano diventati più folti e vaporosi. Ora erano lunghi fino al collo, al punto che dovevo continuamente tirarli all'indietro con un elastico affinché non mi coprissero gli occhi. Il mio collega Maurice diceva che assomigliavo a uno di quei ballerini pelle e ossa che venivano a mangiare al ristorante tutti i venerdì sera. Ma a me piaceva pensare di essere più simile a quei camerieri eleganti che vedevo sfilare dietro le vetrine del ristorante Le Meurice o dell'Atelier de Joël Robuchon sulla Rue de Montalembert. Mi ricordavano i bei tempi passati al Cavaliere di Milano, quando ero solo un piccolo comis alle prime armi. In quei momenti la nostalgia prendeva il sopravvento su tutto e il desiderio di tornare a Milano diventava più forte di qualsiasi altra cosa.

«Un giorno forse riuscirete ad ottenere quello che vorrete....» aveva detto Lacroix il primo giorno passeggiando tra i banchi, «ma ricordate: tutto dipenderà da voi...»

Ne ero perfettamente consapevole. E questo non faceva altro che alimentare le mie paure. Le certezze che pensavo di avere guadagnato prima del mio arrivo a Parigi, stavano lentamente vacillando.

Più passavano i giorni, più le cose peggioravano. Il timore di deludere le persone che amavo, era più forte di tutto. Non riuscivo a liberarmene.

Su una cosa, però, non avevo alcun dubbio: ormai non era più possibile tornare indietro.

Una nuova vita- parte 2 [ Primi due capitoli ]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora