Prologue

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Quando mamma e papà annunciarono che avevano intenzione di divorziare, lo confesso, caddi dal pero.

Uno penserebbe che, quando due persone che stanno insieme da diciotto anni sono sul punto di lasciarsi e separare per sempre le loro vite, te ne accorgi subito.

Invece né io né tanto meno Natalie avevamo avuto modo di prevedere la tempesta che presto si sarebbe abbattuta sulla nostra famiglia.

Ce lo dissero a cena, nel modo classico in cui di solito lo vedi accadere nei film da quattro soldi che trasmettono alla TV.

"Ragazze, c'è una cosa che dobbiamo dirvi..."

"Ora, non pensate nemmeno per un minuto che sia colpa vostra..."

"... no, infatti, non è assolutamente colpa vostra..."

"... ma io e vostra madre... beh, ecco...”

“È da un po' che sentiamo di esserci allontanati...”

“...  per il lavoro e tutto il resto...”

“... e quindi, abbiamo deciso di stare lontani per un po'... giusto per vedere se le cose si sistemano, ecco”.

Ora, chiunque mastichi qualcosa di quel genere di filmografia sa benissimo che questo è solo il preludio a qualcosa di più grande: una fase di transizione atta a far abituare i figli all'ineluttabilità della separazione. E come volevasi dimostrare, mio padre andò “da un suo amico”, “nella speranza che quella separazione temporanea mettesse da parte i dissapori che c'erano con mia madre”, ma due settimane dopo la richiesta di divorzio arrivò lo stesso.

Non che mia mamma non se lo aspettasse, comunque.

In seguito, durante le varie diatribe in tribunale, i miei mi chiesero più volte perché fossi arrabbiata.

Era perché stavano divorziando?

Era perché pensavo che fosse colpa mia – perché non lo era! –?

Era perché ero stata affidata a mia madre anziché a mio padre?

Era perché noi tre – io, Natalie e mamma – ci saremmo trasferite in Irlanda?

No, avrei voluto rispondere, è perché mi avete preso per il culo.

Appoggiata con la schiena al tronco della quercia che si erge dietro casa nostra, mi godo il tepore e la quiete del tardo pomeriggio, quando questa viene interrotta da una voce che ben conosco.

“Jada!” urla Natalie “Jada!”.

Alzo gli occhi dal libro che sto leggendo e osservo la mia biondissima, formosa sorella che mi corre incontro uscendo dal bosco, agitando un cestino di vimini.

“Guarda cosa ho raccolto” esclama col fiatone, una volta che mi è arrivata vicino “Sono fragoline di

bosco. Non sono un amore?”.

Sì, sono fragoline di bosco, e beh, sono un amore nella misura in cui un vegetale lo è. Prendo un frutto, lo esamino, mugugno una risposta affermativa e torno subito a tuffare il naso tra le pagine del tomo. Alla periferia del mio cervello, registro lo sbuffo esasperato di Natalie.

“Possibile che tu sia sempre di cattivo umore?” mi chiede per la centomilionesima volta da quando siamo arrivate in Irlanda.

“Non sono sempre di cattivo umore” rispondo, senza staccare gli occhi dalla pagina stampata “Ieri ho sorriso, ad esempio”.

“Solo perché quel bambino è caduto dritto dentro un cespuglio di ortiche”.

Ridacchio ripensando alla scena, e con la coda dell'occhio vedo Natalie roteare gli occhi.

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