We can meet again somewhere

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La vita, un circuito di esperienze, un esperienza più unica che rara. Ho vissuto tutta la mia vita in modo, tutto sommato tranquillo, le lunghe estati con mia nonna, i rigidi inverni che ci facevano arricciare il naso dal freddo, le azzuffate in primavera sui prati aleggiato di rugiada, le sgridate di mia mamma ad inizio autunno, perché facevo tardi a scuola.
La mia vita, un tumultuoso gioco di alti e bassi.
Il batticuore quando per la prima volta conobbi la mia migliore amica, le gote rosse per il complimento del primo ragazzo per cui mi innamorai.
E i pranzi in famiglia, e le uscite con il mio primo gruppo di amici, le risate, le corse a perfidiato, la continua ricerca di me stesso. Sorrisi malinconico, la vita era proprio bella per certi versi, avevo imparato a sapere chi fossi, cosa avrei voluto, i miei obbiettivi. Ma più trascorreva il tempo più capivo che la vita, quella scintilla che arde ferocemente negli occhi di tutti noi, non era fatta per me. Ne avevo parlato con i miei amici, di quanto io credessi di non essere fatto per vivere, loro mi guardavano seri ogni volta, spaventati suppongo dal pensiero che attanagliava la mia mente dal mio primo giorno sulla mia amata terra. Io allora sorridevo e raccontavo loro "dai, sto scherzando, non è vero, lo sai quanto amo mangiare! Al cibo non rinuncerei mai". Già, da quel primo confronto imparai che il mio singolare pensiero sulla mia vita, nel l'umanità non era condiviso da nessuno.
Crescendo me lo tenni per me, e cos'altro avrei dovuto fare sennò?
Forse l'unica persona con cui parlai tranquillamente di quanto io reputassi la vita incompatibile con me stesso, fu la mia gatta, lei non mi giudicò mai, mi diede anzi tutto quello di cui avevo bisogno, ogni volta si accovacciava sul mio petto e faceva le fusa. Il suo pelo era sempre stato morbido e accarezzarlo mi rendeva sempre più sereno. In un certo senso mi chiedevo, perché nel profondo, non maturassi la voglia di fare così tante esperienze come i miei coetanei, mi chiedevo, se fossi stato un po' rotto io. Ma poi sbuffavo, perché non mi interessava più del dovuto. Ogni giorno andavo a scuola, percorrevo sempre le stesse stradine di paese, percorrevo il tempo e le stagioni, mi rilassavo e mi chiedevo quando mi sarei stufato della vita, quando avrei deciso di rendere reale il mio desiderio di restare in pace.
In quei momenti mi ritrovavo sempre a fissare il vuoto, speravo di trovare l'amore per la vita, invece trovavo solo la mia amica che sventolava la sua mano davanti al mio viso chiedendomi perché mi fossi incantato, e sorridevo sghembo, perché sapevo che si sarebbe preoccupata se le avessi detto quel che meditavo in me. Sorridevo e le davo una pacca sulla spalla ricordandole quanto fosse bella.
Perché si, forse quella era l'unica mansione per cui avevo passione, far comprendere al mio gruppo di amici, quanto la loro passione per la vita li rendesse luminosi ed attraenti, sembravano intoccabili quando parlavano con me delle loro passioni, amavo osservare come sul loro viso spuntasse un sorriso innamorato, e un po' li invidiavo, loro erano fatti per la vita.
Ma i giorni continuavano, e nulla restava lo stesso, crebbi e come me tutto quello intorno a me, il mio gruppo di amici trovò diverse strade, per un periodo rimasi solo, solo con me stesso. In quel periodo tentai il suicidio, nessuno seppe di questa cosa, tranne la mia gatta, era con me quando a letto ingoiai un sacco di medicinali, quando scoppiai a piangere.
Il giorno dopo, andai a scuola, ero ancora su questa terra, il giorno dopo sorridevo a tutti come se nulla fosse successo. Perdere i miei amici, era stata la goccia che mi aveva mandato a fare il mio salto nel buio.
passò un anno da allora, in quell'anno iniziarono a bullizzarmi, non quel bullismo fisico per cui sentì dolore fisico, il bullismo più subdolo di tutti. Mi esclusero dalla classe, mi prendevano in giro, sorridevano divertiti quando mi vedevano fissare le foglie degli alberi fuori dalla finestra, per loro era così dannatamente divertente a quanto pare. Cercavo di essere forte, di ricordarmi, che in fin dei conti avevo sempre detto di non essere fatto per la vita, ed era così, no?
Mia mamma non si accorgeva di nulla, ah, caro vecchio mondo degli adulti, sempre concentrati sui loro doveri, sui valori che da giovani non avevano mai messo in discussione, il lavoro, le bollette, le spese e ancora lavoro. Non mi interessava, se non interessava a lei, io potevo farci poco. L'anno successivo mi feci degli amici, mi chiedevano perché fossi sempre così gentile con loro, perché chiedessi loro sempre se avessero mangiato, bevuto o come stessero.
La risposta era semplice, nessuno lo faceva da tanto con me, volevo farli sentire come mi sarei voluto sentire io. Diventammo in poco tempo un gruppo di cinque persone, me compreso.
Purtroppo non avevo lo stesso legame con tutti loro, ma mi ero legato in particolare con il mio migliore amico, il tipo di persona che sarei diventato se non avessi avuto questa tendenza ad attrarre sfiga.
Cinque mesi dopo, cominciai a capire di essere innamorato di lui, mi dissi "bravo, ti sei innamorato dell'unico ragazzo per cui non avresti dovuto provare nulla".
Ma almeno, ero felice, il mio gruppo di amici mi fece provare qualcosa per la prima volta dalla mia nascita, e senza accorgermene arrivai sino ad ora, inverno inoltrato.
Sono seduto sul cornicione di questo palazzo, il mio gira dischi è accanto a me, il vinile di Harry styles non gira perché voglio che arrivi il momento perfetto, il momento del mio gran finale.
Il mio telefono squilla, ed eccolo, il momento perfetto.
I miei amici sono accanto a me, col fiatone, gli occhi spalancati e il terrore nel vedermi qua.
Ed eccolo, colui che mi ha amato sin ora, le mani gli tremano e mi guarda con sguardo supplichevole.
Mi sporgo verso il giradischi e intono la mia canzone , sign of the times, le note iniziano a risuonare.

Sign of the times- OSDove le storie prendono vita. Scoprilo ora