Passarono i giorni, lenti e nervosi, tra lezioni pesanti e frasi lasciate a metà sul taccuino nuovo che un'amica mi aveva regalato non poco tempo prima. Davvero era bastata una volta sola per mettere in subbuglio il mio cuore? Davvero l'averti vista solo una volta aveva scatenato in me questa voglia di riprendere a scrivere per immaginare un seguito, proprio come tu facevi con i tuoi libri?
Avevo bisogno di vederti ancora, studiarti, perdermi in te allo stesso modo in cui tu ti perdevi tra le pagine piene di parole. Volevo che ogni tua parola fosse come una riga indicata con il dito, tracciando delicatamente i confini delle tue labbra. Eppure i giorni passavano e tu assente, scomparsa, quasi fossi stata il frutto di un disperato bisogno di quel mio prolungamento – si badi bene – non completamento, perché per completarsi non si ha bisogno dell'altro – lo si fa da soli. Bisogna essere tutti interi per amare qualcuno. La propria tristezza non può dipendere dall'altro. Dunque, un rapporto di indipendenza/dipendenza. Indipendenza perché impari a badare a te stesso, dipendenza perché quel sentimento che batte come un tamburo dentro di te, necessariamente e senza alcun dubbio influenza e coinvolge l'altro.
Così iniziai a cercarti negli occhi della gente, degli studenti divertiti nei parchi alla ricerca di qualcosa con cui svagarsi. Iniziai a cercarti nei pullman di città, nei volti dei turisti curiosi; specchiai il mio essere nelle vetrine dei negozi, solo per vedere se per caso potessi – solo per un attimo – ritrovarci il tuo.
Le giornate si fecero via via più calde. Quella sana voglia di andare a studiare di fronte al mare prese il sopravvento su di me. Così dopo lezione, con lo zaino in spalla, dirigevo i miei passi sino a raggiungere il lungomare, che mi si mostrava in tutta la sua bellezza.
Pescatori arricciavano i polpi sbattendoli ripetutamente sugli scogli, barche all'orizzonte, chioschetti aperti e odore di carne vecchia chissà di quanto. Mi sedevo sulla panchina più lontana, sceglievo la zona meno praticata, mi sedevo e restavo in contemplazione chissà per quanto tempo prima di aprire il libro.
Che strano modo di comunicare il mio, che strano modo di comunicare, quello del mare, che con le sue onde rancorose s'infrange sugli scogli, la superficie dell'acqua diventa spumosa, si gonfia, si muove ripetutamente, e il tuo stato d'animo d'improvviso ne risente. Riesci a percepirla, l'agitazione del mare.
Non quella mattina. L'acqua limpida e calma infondeva un senso di pace e leggerezza, calma e spensieratezza. Fumai l'ultima sigaretta di un pacchetto comprato due giorni prima ed estrassi il libro di letteratura italiana dallo zaino.
"Cosa vuoi fare da grande?" – mi chiedevano sin dalla tenera età.
"Voglio insegnare" – rispondevo prontamente, consapevole che il mio metodo d'insegnamento mirava ad essere diverso dalle classiche informazioni impartite agli studenti nel pieno del loro apprendimento. No, con il passare del tempo avevo capito che il mio desiderio più grande era quello di insegnare a farcela dopo le difficoltà, a rialzarsi centouno volte in caso di cento cadute. Avrei voluto insegnare la quotidianità, l'esser grati per ciò che si ha e a sorridere sempre, perché più grandi sono le ferite più con fierezza mostreremo le nostre cicatrici.
Non ho mai amato la certezza. Così scontata, così ovvia, così banale. Eppure nei momenti più difficili l'ho desiderata. In un periodo incerto ho bramato la certezza, ma lei ha prontamente rifiutato. Amo il rischio, sino ad un certo punto, rincorro il nuovo, seppur ne abbia un po' timore.
E mentre studiavo, ebbi una strana sensazione, come se il radar dentro me stesse suonando. Sollevai lo sguardo e fu allora che ti vidi, seduta su una panchina non lontana dalla mia, ti agitavi nervosamente parlando al telefono.
Fu la prima volta in cui ti vidi turbata. Con il cuore che mi batteva nel petto e un istinto incontrollabile di raggiungerti e abbracciarti, mi imposi di restare al mio posto, limitandomi a guardarti. Poi da agitazione divenne rabbia, e da rabbia, timore. Raccogliesti quanto di tuo avevi poggiato sulla panchina ea scappasti via piangendo. Come avrei potuto – allora – permettere che andassi via senza comprendere, senza che ci fosse lì nessuno a confortarti? Decisi - su due piedi – di seguirti, di accertarmi che saresti arrivata a casa sana e salva. Facendo attenzione a non essere scoperta, ti seguii mentre svoltasti l'angolo per poi proseguire diritto. Invidiai i passanti che, essendo costretti a scansarti, sfioravano la tua spalla o la tua mano. Incominciasti a camminare più velocemente ed io – con fatica – ti stavo dietro. Dopo una decina di minuti, giungemmo davanti ad un portone verde, uno di quelli del postguerra, e premesti il pulsante del citofono con insistenza.
Non avevo prestato abbastanza attenzione. D'improvviso mi ritrovai i tuoi occhi addosso. Quegli occhi del colore del cielo, e del mare, e di tutto ciò che di bello c'è.
"Non dovresti essere qui" – mi dicesti quasi bisbigliando, ma io compresi e feci un cenno con la testa, come un'idiota.
Tuttavia non mi mossi. Aspettai un segno, qualsiasi cosa che mi consentisse di avvicinarmi di più.
Tu, d'altro canto, non mi facilitasti le cose. Rimanesti ferma, asciugandoti le lacrime con la manica della giacca, e al suono di apertura del citofono, sgattaiolasti dentro senza nemmeno voltarti per un saluto.
Spavento, timore e rammarico presero il sopravvento su di me, mentre rimasi ad aspettarti in attesa che uscissi, seppur per quel giorno, da quella casa, non uscisti più.
Te l'avrei detto qualche anno dopo se ce ne fosse stata occasione. Così non hai mai saputo che sono rimasta lì, ad aspettarti, chissà per quante ore.
Persa ogni speranza, decisi di far ritorno a casa. Coi piedi doloranti e le mani appesantite, ripensai a quanto accaduto e a quel sesto senso che il novantanove per cento delle volte ha sempre ragione.
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Amare stanca
RomanceRicordo come fosse ieri la prima volta che ti ho vista, e già allora avrei voluto dirti che ti ho aspettata come si aspetta la primavera coi suoi colori cangianti e pieni di vita; ecco cosa sei stata per me: vita che ti penetra sin dentro le ossa, t...