CAPITOLO 3

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"Ti sei svegliata finalmente, come ti senti?"
Mark mi stava tenendo la mano, ed è probabile che non me l'abbia mai lasciata in tutto il tempo che ho trascorso in questa stanza.
"Dove mi trovo Mark?"
mi sentivo disorientata, e speravo che lui potesse aiutarmi a fare il quadro della situazione, e riprendere da dove tutto si è fermato.
"Siamo all'ospedale, è passato un giorno, ieri hai perso i sensi e ti ho dovuta portare qui. Ho avuto paura non ti svegliassi più"
Mark sembrava davvero spaventato, a tratti ansioso, ma indubbiamente felice che io fossi tornata tra loro.
Gli ho chiesto un caffè, ne avevo bisogno per ritornare a vivere e celebrare questo vago ritorno alla realtà, l'ennesimo: chissà, magari l'ultimo di una serie.
"Dove sono i miei effetti personali?" ho chiesto con tono smarrito.
Mark più che essere il mio manager e agente letterario, sembrava una balia che non mi ha mai abbandonata nei miei momenti bui, e tanto meno nei momenti in cui perdevo me stessa.
Gli ero grata, sempre stata, ma non avevo ancora trovato il momento adatto per dirglielo.
Mi ha passato la borsa e ho subito estratto il cellulare per cercare vagamente di ripristinare la cognizione del tempo: vedere il calendario, capire che giorno fosse e quali impegni prevedesse la mia agenda, per i giorni seguenti.
Nuovo messaggio in entrata, Alex, di nuovo. Stavolta ho ignorato, non sarei più riuscita a tenerlo lontano dalla mia vita altrimenti.
Mark ha interrotto i miei pensieri dicendomi "la tua intervista è appena stata pubblicata", con tono un pò incerto, come se ci fossero cose che non avrei dovuto sapere, o per lo meno, che sarebbe stato meglio non sapere.
"C'è qualcosa che non va Mark?" gli ho chiesto con tono interrogatorio.
"Assolutamente nulla, solo i soliti critici mediatici che si sono espressi in merito a ciò che hai detto".
Non mi sorprendeva che qualcuno non condividesse ciò che ho detto, nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di persone che si sentono tirate in causa dalle mie argomentazioni. Sono certa che il critico di turno che ha avuto da ridire sulla mia concezione di fallimento o che, fosse nient'altro che egli stesso l'uomo medio a cui mi sono riferita, parlando della creazione di un meccanismo vitale che fosse funzionale.
"Ti hanno definita anticonformista"
ha esordito Mark con gli occhi ancora poggiati sullo schermo, mentre scorreva i commenti sotto la rivista, caricata online.
Il cartaceo d'altronde non andava più di moda, per questo motivo una rivista pubblicata online non faceva a tempo ad essere pubblicata, che i commenti arrivavano nell'arco di letteralmente due minuti.
E' un mondo troppo frenetico.
"Beh quando mai ho detto di non esserlo? Non capisco dove risieda il problema"
"Infatti non l'hai mai detto, il fatto è che ti definiscono anticonformista senza basi"
"Questa mi mancava, la aggiungo alla raccolta. E' normale che sostengano che io non abbia basi, semplicemente perchè non le ho recuperate dai libri di scuola o dall'opinione pubblica, dalle teorie riportate nei saggi brevi. Sono concretamente anticonformista, e lo dimostra il fatto che le basi a cui mi appello, le ho create io stessa. Non mi interessa dunque che critichino il mio modo di pensare, è pur sempre mio."
"Stanno facendo ipotesi su chi sia il cosiddetto uomo fortunato"
Le parole di Mark mi hanno strappato una risata.
Migliaia di persone sostenevano che Alex fosse fortunato, e mi faceva ridere il fatto che lui non si sia mai sentito tale. E non nascondo che ci fossero giorni in cui volevo guardarlo in faccia e dirgli "cazzo come è possibile che i tuoi occhi siano tanto difettosi da non capire cos'hai di fronte a te?"
Ma non parlavamo la stessa lingua e non ci saremmo mai capiti, i miei tentativi di ripristinare la sua cecità emotiva sarebbero stati fallimentari, come sempre.
Ricordo ancora la volta in cui è venuto sotto casa mia, professandosi "cretino" per aver preferito un'altra ragazza a me, soltanto perchè questa era un percorso più facile da portare a termine.
Il fatto è che per quanto fosse pentito, rimaneva costante il fatto che lui avesse preferito lei a me. In Alex quella sera, ho rivisto l'uomo V, mio padre, quando tornava a casa ubriaco fradicio e implorava mia madre di perdonarlo, per gli errori commessi, per il suo amore difettoso e per non essere un padre autentico. E mia madre lo perdonava, consapevole che quella non sarebbe mai stata l'ultima volta. Come l'ultima sigaretta, una promessa stupida che le persone si fanno, nonostante la consapevolezza che il giorno seguente, la sigaretta che accompagna il caffè mattutino, non sarebbe affatto mancata.
Sapere che per Alex fossi solo un'opzione, faceva male, tanto quanto sapere che non fossi mai "io", la scelta.
Il punto è che mentiva a se stesso, e c'era sempre la parte irrazionale di lui che lo prendeva a pugni perchè voleva me, mentre lui non era disposto ad accettarlo.
In una serata di dicembre, da ubriachi, mi ha letteralmente buttato in faccia che non volesse più vedermi o sentirmi. L'ho percepito come uno schiaffo ai miei sentimenti ed è stato difficile deglutire quelle parole e arrivare a metabolizzarle.
Ero giunta al punto in cui ero esausta che i miei sentimenti venissero usati e stracciati come pezzi di carta, senza pietà, proprio perchè era insolito che ne provassi per qualcuno. E questo qualcuno, era sbagliato per la Helen che giace su questo letto bianco candido.
Il messaggio diceva testualmente "cosa ti è successo? Sono preoccupato"
Volevo solo resettare l'ultimo anno e mezzo, tornare indietro e non incontrarlo affatto sulle strade di questa città: e per un momento ho pensato di trasferirmi nuovamente, altrove.
"Mark, quando mi dimettono?"
"Devono farti delle analisi del sangue per accertare che la tua salute sia idonea per poter procedere, e se tutto è in regola, oggi pomeriggio torni a casa"
"Bene, perchè cambio casa"
"Cosa stai dicendo? Dove hai intenzione di andare?"
"Non ne ho idea, sicuramente lontano da qui."
"Mi tocca nuovamente assecondarti e seguirti. Quando mi darai un pò di tregua?"
"Ti farebbe solo che bene cambiare atmosfera e rifarti gli occhi."
"Devo interromperti, deduco tu non lo gradisca, ma qualcuno è qui per farti visita".
Il letto d'ospedale era troppo interno per permettermi di scorgere la porta della camera.
"Alex?"
Speravo fosse l'ennesimo brutto scherzo della mia mente, che confondeva il reale con ciò che non lo era affatto. Speravo che fosse una mia visione, fin quando il ragazzo sulla porta ha detto "ti ho detto che ero preoccupato per le tue condizioni. Potevi rispondermi, anzi, dovevi" e ho fatto presto a riconoscere quella voce.
"Non ti devo proprio nulla intanto, e in secundis chi ti ha detto di presentarti qui come nulla fosse?"
La mia voce era brusca ed arrogante, ed io sembravo nutrire odio nei suoi confronti. Eppure ci siamo sempre odiati noi due, non era una novità del momento: scontri, controversie, litigi e schiaffi emotivi non mancavano mai.
E mi chiedo come sia possibile dipendere, per indole, da questa categoria di cose.
"Non posso?"
"Non ti è permesso nulla quando si tratta di me, sei fuori"
"in che senso?"
"Fuori dalla mia vita, uomo definito fortunato dai mass media, sei solo un bastardo patentato per quanto io ne sappia."
"Mi mancava questo lato arrogante di te, sempre senza peli sulla lingua"
"Vattene"
"No"
In quel momento la mia pazienza ha toccato il fondo, se non aveva intenzione di andarsene, me ne sarei andata io.
Ho staccato con violenza le flebo dal braccio, causandomi una piccola emorragia.
Non indossavo più il mio abito nero e non avevo tempo per cambiarmi. Così ho preso le chiavi della macchina, e tutto ciò che mi apparteneva, lasciando Alex e Mark in quella stanza.
Avevo silenziato qualsiasi cosa tentassero di dirmi, perchè non avevo intenzione di ascoltare.
Ho passato la vita ad ascoltare le persone, e c'erano giorni in cui ne avevo abbastanza. Volevo che qualcuno, per una volta, si sedesse e mi ascoltasse da inizio a fine.
Per quanto chiunque tentasse di fermare il mio tentativo di evadere, ho lasciato la stanza guardando negli occhi Alex, questa volta con presunzione e potere, di prendere in mano la mia vita e non assecondare un uomo che ancora non sapeva con certezza cosa volesse dalla sua, di vita, e agiva per puro capriccio.
Il fatto è che ne avevo a sufficienza, volevo solo sbarazzarmi di tutti i momenti con cui ho colmato la mia vita nell'ultimo anno e mezzo: buttare via tutto e ingannare me stessa con idee riguardo la "non esistenza" di tutto ciò.
Sentimenti bruciati e gridati, pensieri uccisi, schiaffi emotivi, spiegazioni fallimentari e controversie: ero esausta.
Volevo amare e volevo farlo per davvero, stavolta senza preoccupazioni.
Volevo provare un amore puro che non mi facesse sentire "mai abbastanza", e sempre briciola, per colui a cui stavo letteralmente buttando il cuore in faccia come a dire "guardami cazzo, non è difficile". Ero stanca di chiedere "per favore", per favore vacci piano, "non distruggermi", "non farmi a pezzi come carta","non tagliarmi e non bruciarmi". Non volevo più rincorrere gli sbagli, tanto meno quelli che ho commesso io stessa: li avrei archiviati in una scatola, la stessa che conteneva le fotografie della mia vita imperfetta.
Ho solo capito l'inutilità del tentativo di snaturare Alex, ero io a dover cambiare: vita, priorità, prospettiva e modo.
L'avevo capito a forza di ripetere "ne ho abbastanza", e stavolta ne avevo abbastanza per davvero.
Una volta arrivata nel parcheggio, la mia BMW R4 era posteggiata in prima fila e non è stato difficile rintracciarla: era l'unica cabriolet rossa.
È stata la mia prima macchina, l'ho comprata da sola grazie ai thriller psicologici che ho pubblicato. D'altronde questo era uno dei motivi per cui ho intrapreso la facoltà di Psico-analisi: studiare la mente umana mi aiutava a saperla rappresentare nei miei romanzi.
Ho sbloccato le portiere con la chiave e sono salita, con fare frenetico. Avevo una sovrabbondanza di emozioni negative e ansia in corpo, e ho sentito l'esigenza di calmarmi un po' prima di partire, per evitare di fare un secondo incidente, il primo risale a quando ero piccola, con mio padre alla guida, palesemente in stato di ebbrezza. Il fatto è che avevo pochi ricordi dell'accaduto.
Ho cercato un coagulante nel cruscotto della macchina, sapevo di averne uno di scorta perché ero solita assumerlo per contrastare le mie epistassi continue.
In quel piccolo abitacolo c'era silenzio, esattamente quello di cui avevo bisogno, nonostante l'emicrania mi causasse scompiglio nella testa, facendomi sentire rumori che non provenivano dall'esterno, bensì da dentro me.
Ho deciso di mettere in moto la macchina, partire, e lasciarmi tutto alle spalle: la struttura ospedaliera, Alex, e i ricordi frammentati delle ultime 24h. Nonostante fossi consapevole che quei dannati ricordi mi avrebbero perseguitata ovunque andassi.
In quel frangente di tempo, mentre cambiavo la modalità della macchina rendendola cabriolet, ho maturato ciò che volessi fare una volta tornata al mio trilocale.
Avrei fatto le valigie, portandomi lo stretto necessario, e sarei andata a trascorrere un po' di tempo altrove, una vacanza per staccare. Non sapevo ancora dove, ma poco importa, bastava fosse lontano da qui.
Sono partita, immergendomi nel traffico della città, e mi sentivo parte di un qualcosa: parte di queste strade, di questa fila di macchine, in cui io non ero riconoscibile.
Ho accelerato arrivando alla massima velocità consentita. Ho percepito un senso di libertà pervadermi, ed è arrivata persino nella mia mente. Una brezza leggera che mi scompigliava i capelli, mi ha fatta sentire slegata da qualsiasi cosa mi bloccasse.
Erano queste le piccole cose che amavo del mondo: piccole e semplici, come il senso di libertà, il vento tra i capelli, un caffè la mattina, il silenzio e la pace.
Ho alzato un braccio per illudermi di toccare il cielo: il fatto è che ho sempre avuto le mani legate al cielo dopo la morte di mia madre, avvenuta in circostanze sconosciute.
O meglio, ero io a non sapere cosa le fosse successo. Il mondo sembrava saperlo, e venivo trattata come se fossi l'unica a non meritare di sentire la verità: forse era protezione, il punto è che le bugie bianche non mi proteggevano affatto dalla mia "vita imperfetta", e questa saltava sempre fuori all'improvviso.
Avevo un pò di messaggi vocali lasciati in segreteria: Mark, Alex e contatti di lavoro.
Ma uno in particolare ha attirato la mia attenzione, era un numero anonimo.
Ho premuto avvio, con un pò di incertezza ed estrema curiosità di conoscerne il contenuto.
"Sai dove devi andare per scoprire la verità"
era la voce di quella sagoma nello specchio, la stessa, che nella dimensione estranea mi ha detto che la mia realtà non era affatto reale.
La paura mi ha nuovamente pervasa, stavolta però senza distruggermi.
Ero pronta a cercare la verità, a costo di arrivare in capo al mondo, e per quanto mi facesse paura, ho deciso di buttarmi ugualmente a capofitto.
Il fatto è che non sapevo affatto dove dovessi andare, dove potessi trovarla, eppure quella voce nemica, mi conosceva alquanto bene.
E non potevo considerare nemico colui che conosceva ogni angolo di me, persino quello più intimo e meno esposto.
Ho accennato un pianto di stanchezza, volevo solo arrivare a casa mia.
Ho accelerato di nuovo, senza guardare indietro, ingannando il tempo.

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