III

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F  I  O  R  E

Dicembre

«Nella giornata di oggi siamo qui riuniti per celebrare il vostro amore.» Le parole enunciate dal prete richiamarono l'attenzione di tutti i presenti. «Sebastian e Fiore, oggi siete qui in piedi dinanzi al Signore per giurarvi amore eterno nel sacro vincolo del matrimonio. Siete dunque pronti?»

Gli occhi del prete si posarono prima su Sebastian e poi su di me. Alle nostre spalle, infondo alla piccola parrocchia del carcere di San Quintino, le guardie osservavano attentamente la scena, pronte ad intervenire in caso di emergenza.

Al fianco di Sebastian c'era Brian, il suo compagno di cella, nonché suo caro amico, che per l'occasione gli stava facendo da testimone. 

Al mio di fianco invece, non c'era nessuno. Solo la fredda e gelida parete delle chiesa in cui mi stavo per sposare.

«Siete coscienti del passo che state per fare?» Continuò a chiedere il prete, ma questa volta la domanda sembrava rivolta a me.

In quella stanza sembrava che fossi io quella fuori posto, quella sbagliata. Le guardie sembravano temere più me che Sebastian.

Ero indubbiamente spaventata, stavo per affrontare un grande passo della mia vita completamente da sola, senza nessuno al mio fianco, se non l'uomo che da lì a pochi minuti sarebbe diventato mio marito.

«Sì..» Dissi guardando il prete negli occhi. Tra le mani stringevo il mio piccolo bouquet di fiori, che era abbinato al mio semplice tubino bianco. Non potevo permettermi un vestito da sposa, non dopo tutti soldi che avevo speso per venire negli Stati Uniti.

L'abito però non era importante, tanto meno la cerimonia in se. Tutto quello che contava veramente eravamo io e Sebastian. Il resto del mondo non esisteva più intorno a noi, i miei occhi vedevano solo lui e i suoi vedevano solo me. Il resto si annullava.

L'unica cosa veramente di valore che avevo addosso quel giorno era il velo da sposa della madre di Sebastian. L'ultimo oggetto prezioso che era rimasto alla sua famiglia e che aveva voluto donare a me.

«Bene, allora iniziamo...» Esclamò il prete dando inizio alla cerimonia.

S  E  B  A  S  T  I  A  N

Aprile

«Seb, muovi il culo e vieni a giocare, cazzo! Quei figli di puttana dei nazisti ci stanno massacrando.» Urlò Brian richiamando la mia attenzione da fuori campo. Ero seduto in disparte, a farmi beatamente i cazzi miei, quando quel rompi coglioni del mio compagno di cella mi aveva chiamato.

«Non ho voglia di giocare.» Risposi secco, continuando a leggere i fogli che tenevo in mano.

Brian però non voleva mollare l'osso.
«Ascoltami bene Sebastian, comincia seriamente a farmi girare le palle questo tuo nuovo atteggiamento. Si può sapere che ti prende?! Sono settimane che stai con la testa per aria!» Iniziò a gridarmi in faccia. «È per quella ragazzina che ti scrive dall'Italia, vero?!»

«Ti ho già detto che non ho voglia di giocare.» Continuai a dire, cercando di restare calmo.

«Amico, non sai manco chi cazzo è. Potrebbe essere una vecchia zitella in cerca di attenzioni, con una vita noiosa che non ha niente di meglio da fare che scrivere ad un giovane criminale straniero.»

«Non ricordo di aver chiesto la tua opinione a riguardo...»

Brian sbuffò esasperato. Era tutto un fascio di sudore a causa del caldo insopportabile e della partita di basket che stava giocando con gruppo di detenuti bianchi, razzisti fino al midollo.
La sua pelle scura brillava sotto il sole, e i suoi cazzo di muscoli erano tutti scoperti. A quel figlio di puttana piaceva mettersi in mostra, per mettere terrore agli altri detenuti.
Se non lo conoscessi bene ci sarei cascato anche io nel tranello dell'uomo nero grande e cattivo, ma era un bravo ragazzo infondo.

𝐖𝐫𝐢𝐭𝐞 𝐭𝐨 𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐬𝐨𝐧𝐞𝐫 | Sebastian StanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora