Capitolo due - Reven

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Il ragazzo strinse i pugni con forza. Le braccia gli tremavano per la rabbia e per quell'intollerabile senso di impotenza.

Attorno a lui, decine di persone vagavano nella piazza del centro come api impazzite, ma Reven non riusciva a sentirle. L'unica cosa che era capace di percepire in quel momento era l'urlo disperato della sua anima: quel terribile, straziante urlo di dolore che ormai da giorni occupava la sua mente, che aveva creduto impenetrabile.

Il suo sguardo incontrò la statua che troneggiava al centro della piazza: un uomo raccolto in preghiera, elegante e maestoso ma al tempo stesso umile. Era inginocchiato su una lastra di marmo bianchissimo, le braccia rivolte al cielo, e l'avevano scolpito senza volto, perché potesse avere il volto di chiunque.

Perlomeno Uhr era coerente. Per lui gli uomini erano solo agglomerati di carne e ossa, senza una faccia, né un'identità.

Reven, seduto sulla scalinata di pietra che sovrastava la piazza, trattenne un fremito rabbioso. Si conficcò le unghie nei palmi delle mani e si morse il labbro per non gridare.

Quante volte, su quegli stessi gradini, si era fermato a osservare la statua al fianco di suo fratello. Quante volte si erano chiesti quale potesse essere il vero volto di quell'umanità di pietra, quante domande si erano posti sulle inconcepibili volontà di Uhr e sui suoi criteri sleali.

Domande che erano destinate a restare senza risposta. La ribellione, la ricerca della verità non erano atti ammissibili in quel mondo paludoso, tanto da dover essere pagati con la vita stessa.

Proprio come era accaduto a suo fratello.

Proprio come, prima o poi, sarebbe accaduto anche a lui. Reven lo sapeva. Lui non aveva nessuna intenzione di annientarsi per compiacere un dio che non lo rispettava. Era stanco di ascoltare la voce di Uhr, stanco di seguirla e di ignorare la propria. Lui ce l'aveva un'identità, e lo sapeva: non era una statua bianca senza volto.

«Ci stai ancora pensando?»

Reven si voltò. Si trovò faccia a faccia con Darvan, il suo migliore amico.

«Non riesco a farne a meno.»

Darvan si sedette accanto a lui, sospirando appena, e gli passò un braccio attorno alle spalle. Reven chiuse gli occhi per qualche istante e si lasciò confortare.

«Sai, forse ora dovremmo cominciare ad accettare la realtà per quella che è» fece poi Darvan, rompendo il silenzio.

Reven si irrigidì. «Che cosa vuoi dire?»

L'amico esitò appena, incerto. «Che forse dovresti smetterla di porti tante domande» disse alla fine. «Forse dovremmo imparare a fare qualche compromesso nella nostra vita.»

«Che cosa stai dicendo, io non...»

«Reven, sai benissimo a cosa mi riferisco. Tutte quelle tue idee ribelli, insolenti... beh, sai, dovresti cominciare a renderti conto di quanto siano infondate.»

Reven si scostò bruscamente da lui.

«Come puoi dire una cosa del genere? Tu hai sempre sostenuto il mio pensiero!»

«Dopo quello che è successo mi sono dovuto ricredere.»

Lo fissò, incredulo, ma decise di tacere. Non aveva alcuna voglia di litigare; non con lui e non in quel momento.

«Ma tu non la senti?» continuò tuttavia Darvan. «La voce di Uhr? Non senti le sue suppliche, non senti il calore delle sue parole? Non senti la sua vicinanza?»

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