Le lenzuola stralciate erano impregnate d'un odore che soffocava la stanza: era un misto di lino bianco e peccaminosità che la avvolgeva alla gola impendendole di deglutire e recuperare il severo respiro che tutti temevano. Guardava il suo riflesso nudo allo specchio e non si riconosceva; non era per i capelli disordinati o il trucco scivolatole attorno agli occhi, non era nemmeno per quella ruga netta che solcava il suo collo. Era qualcosa che uno specchio non avrebbe mai riflesso, ma che lei vedeva, sentiva, e lo sentiva dentro. E più lo sentiva più voleva urlare. Si sentiva nuda in uno strato più profondo della mera fisicità, si sentiva divorata dall'interno, nelle viscere, nella mente. Strinse gli occhi cacciando indietro le lacrime: le sentiva quelle stronze bussare alla sua porta e reclamare di solcare il suo volto quarantenne che mai aveva assaporato quelle gocce. Appoggiò le mani al comò, tirò indietro la testa distendendo il collo al suo massimo e mordendosi le labbra cancellò quella sensazione di pianto che la pervadeva.
Lei era la Serpe, l'insensibile, la fredda, la stronza, la divoratrice di studenti. La chiamavano così in università e così lei aveva imparato a dipingersi, diversamente non avrebbe saputo descriversi. Perché oltre a quello, lei non era altro. Quello era ciò che la descriveva e con cui riempiva le giornate; che avrebbe fatto se fosse crollata quella convinzione che animava i bisbigli a lezione? Che ne sarebbe stato di lei?
Riaprì gli occhi tornando a fissarsi allo specchio, appena colpito da un lampione notturno. La stessa luce che danzava sul suo corpo al movimento degli alberi, feriva il corpo che, inerme e nudo, giaceva nel suo letto. Lo guardava dallo specchio perché se si fosse voltata e l'avesse avuto più vicino, non avrebbe saputo calmare l'istinto: quell'istinto di approcciarsi a quel corpo, di distendersi su quel corpo e svegliarlo sulle labbra, di sentirlo gemere sotto il suo tocco, di riempirlo coi palmi delle sue mani, di scavarlo fino a vederlo accartocciarsi, così sopraffatto da non riuscire neanche più a gridare.
Guardava quel corpo e non vedeva un corpo.
C'era una pelle chiara con una cicatrice sul mento di cui lei conosceva la storia. C'erano i capelli albicocca che ricadevano morbidi coprendo solo in parte gli occhi che, al mattino, risaltavano della loro nocciola. C'erano le mani che l'avevano aiutata a portare dei libri in biblioteca. C'era la risata davanti a quella tazzina di caffè offerta al bar. C'era lo sfiorarsi delle ginocchia durante una conferenza. C'era uno sguardo che non aveva avuto timore di quel che si diceva. C'erano i suoi ventiquattro anni. C'era Giada.
Giada che riempiva il suo letto da così tante notti che non ricordava neanche più da quante perché lei, la Serpe, l'insensibile, la stronza, la divoratrice, contava soltanto quelle dove Giada non c'era e sentiva uno strano vuoto accumularsi sul suo petto.
Era iniziato tutto come ogni volta: l'aveva attratta a sé con la camminata nel tailleur nero e i lunghi capelli biondi raccolti, con quella sua severità che scivolava in sensualità, con quelle sue labbra carnose che s'erano incollate alle sue giovani ed inesperte e tremanti. Era iniziato con una notte passata ad esplorarsi. Con un'altra a divorarsi. Con un'altra ad ammirarsi. Con un'altra a cercarsi. E di nuovo a divorarsi in quella del rincontro.
Era iniziato tutto come ogni volta, ma questa volta qualcosa sembrava diverso: lei.
«E' presto, torna qui.» mormorò Giada cercandola nell'altra metà del letto.
Come comandata, si avvicinò e, restituendo il sorriso assonnato della ragazza, si sdraiò al suo fianco. Sentì le braccia di Giada avvolgerla e il suo volto accucciarsi sul suo petto. Stringendola a sé le baciò il capo, ascoltando il suo respiro ripiombare nel sonno.
Quell'odore tornò vivo alle sue membra. Quel lino e quella peccaminosità lasciavano il retrogusto di qualcosa che lei non conosceva e non sapeva nominare; quel qualcosa che però la stringeva, le faceva male, le bloccava le mani e il petto, le impediva di respirare e la obbligava a lottare contro la dirompenza del pianto a cui non dava voce.
Giada dormiva accanto a lei e lei incideva l'immagine fra le lacrime che, silenziosamente, avevano cominciato a piovere su Milano.
La luce che solo poche ore prima era flebile nel ferirla, ora era vigorosa sulle sue curve mentre lei ritrovava il suo volto impresso sul cuscino, stretta fra lenzuola che le erano state piegate addosso. Non apriva gli occhi per non vedere quel vuoto che le stava accanto, non apriva gli occhi ma sentiva quel vuoto starle accanto. Sentiva la lontananza di quel corpo esile e giovane di cui aveva ancora il sapore fra le labbra, sentiva il vuoto immenso ed incolmabile che quel corpo aveva lasciato. Lasciato dentro.
Non era la prima volta che una storia finiva. Finivano gli anni universitari e la vita chiamava le giovani leve al futuro. Finivano gli anni universitari e le relazioni mutavano. Finivano gli anni universitari e le relazioni clandestine erano soltanto un errore da archiviare. Finivano gli anni universitari anche per Giada, che mai era stata sua studentessa. Finivano gli anni universitari per quella ventiquattrenne che, solo per casualità, aveva conosciuto durante la lezione d'un collega. Finivano gli anni universitari e Giada stava per andarsene.
Il lino e la peccaminosità avevano lasciato il posto a quell'ingombrante retrogusto a cui doveva dire addio.
Avea paura, e pianse.
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La laurea
RomancePuò una professoressa che tutti chiamano la Serpe scoprire l'amore grazie a una studentessa? - racconto breve -