DISCESA

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L'uomo guardava fuori della finestra. Gli occhi grigi puntati contro l'orizzonte pluvio. Il trillo del telefono lo fece sussultare.

«Sì, pronto?»

«Dottor Kauffman, sono Sarti.»

L'uomo fece una smorfia, da qualche parte arrivava la sigla di chiusura di Portobello, come ogni venerdì.

«Abbiamo bisogno di lei al distretto. Ne abbiamo trovato un'altra.»

Kauffman gettò un'altra occhiata alla sera umida oltre i vetri e restò in silenzio, la cornetta pesante premuta contro l'orecchio. Il fondo di una sedia strisciò sul pavimento del piano di sopra, qualcuno chiuse una porta. Dal fondo della strada giunse il rumore di un'auto di passaggio.

«Dottore, mi sente?» domandò l'altro.

«Mi dia il tempo di chiamare un taxi...» rispose atono.

«Ho mandato una volante, dovrebbe già essere lì.»

Tornato alla finestra, l'uomo constatò che la pattuglia era infatti accostata al marciapiede sottostante. Inspirò e trattenne il fiato per qualche secondo, poi lo liberò nella stanza in penombra. Ultimamente non amava essere convocato, sapeva a cosa si riferiva il poliziotto all'altro capo del telefono, sapeva che quella sarebbe stata un'altra di quelle notti.

Non perse tempo a indossare il soprabito, se lo sistemò su un braccio e uscì di casa.

I poliziotti nella volante non parlarono, a parte un saluto sbrigativo. L'auto partì proprio quando la pioggia si decise a cadere.

Al commissariato c'erano tutti: Sarti, Cesarano e la Cavalli. Lo aspettavano in piedi, assiepati davanti a un'unica porta, piccola, mal tinteggiata e recante un laconico SALA UNO, in lettere rosse su sfondo dorato.

Karl Kauffman si sentì stanco, come se la nottata si fosse appena conclusa, anziché essere al principio; la nausea cominciò a serrargli lo stomaco, sapeva a cosa andava incontro e, d'un tratto, gli venne voglia di vomitare.

«Come si chiama?» domandò invece, fissando lo sguardo sul pavimento di piastrelle esagonali.

«Silvia» rispose Sarti.

«Silvia» ripeté Kauffman e annusò l'aria che sapeva di fumo e cera per pavimenti.

«Siamo dall'altra parte, dottore» fece Sarti.

Il medico annuì, poi posò una mano sulla maniglia e spinse; la porta si aprì su un vano semi-buio, cigolando appena.

Kauffman diede un ultimo sguardo ai tre poliziotti che lo osservavano poco oltre la soglia, entrò e chiuse la porta alle sue spalle. Si sedette, si tolse gli occhiali, li posò sulla scrivania che aveva di fianco e fece un respiro lungo, ma silenzioso.

«Silvia?» chiamò piano.

Nella stanza si propagò un timido sospiro.

«Mi senti?»

«Sì», la voce di una ragazza si diffuse leggera nell'ombra, simile al cinguettio breve di un uccellino.

«Sai perché siamo qui?»

Silenzio.

«Silvia?»

«Sì.»

«Sai perché ci troviamo qui?»

Un altro sospiro, poi un sussurro incomprensibile.

Kauffman chiuse gli occhi e respirò a fondo. Il debole malessere che lo aveva accompagnato fino al distretto, divenne più netto e diede inizio a una potente emicrania.

«Lei chi è?» domandò la ragazza all'improvviso.

Kauffman aprì gli occhi e intercettò il retro di uno schienale scuro. Si muoveva appena e il movimento generava un cigolio sottile e monotono.

«Mi chiamo Karl Kauffman, sono un medico.»

«Che genere di medico?»

«Uno psichiatra» la voce di Kauffman uscì in un rantolo, l'uomo si schiarì la voce e riprese a parlare.

«Sono qui per aiutarti a ricordare.»

«Ricordare che cosa?» chiese lei.

«Quello che ti è successo stanotte.»

Silenzio. Ancora un cigolio, più intenso questa volta, simile al passaggio maldestro di un archetto sulla corda di un violino. Da fuori, si udì il sussulto delle imposte scosse dal vento che battevano sull'intelaiatura della finestra.

«Quello che... mi è successo stanotte» ripeté Silvia.

«Sì.»

Silenzio e poi ancora il vento a fare da eco al respiro pesante di lui. Il dolore andava aumentando, zanne roventi parevano addentargli le tempie, avide e inesorabili. Avrebbe potuto prendere un analgesico, ma gli analgesici gli facevano perdere la concentrazione. Il dolore invece, in un modo che gli era sconosciuto, gli permetteva di entrare in empatia con i pazienti, con pazienti particolari che con il dolore avevano un rapporto stretto. Come la giovane che parlava nella stanza. Come le altre che aveva trattato in passato e nei giorni precedenti. Il dolore era la chiave, con quello e solo con quello poteva indagare, sondare, capire.

Un attimo dopo, dal lago di silenzio che aveva inondato la stanza emerse un gemito o forse lo squittio della pelle di cui era fatta la poltrona davanti a lui.

«Silvia?»

«Sì.»

«Ho bisogno di chiederti di tornare indietro.»

Silenzio.

Kauffman sospirò con la radice del naso stretta tra pollice e indice. Il vento premeva contro i vetri con ansiti sempre più intensi. Per un attimo pensò che sarebbe stato peggio del solito. Quella notte non avrebbe mai avuto fine, lei non avrebbe parlato, non avrebbe detto nulla. Si accorse del tremore che saliva dal ventre e stava per alzarsi per porre fine all'esperimento quando:

«Va bene» disse lei e il vento, d'improvviso, cessò.

SilviaWhere stories live. Discover now