Siddharta

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Hermann Hesse
Siddharta
Dal verbo suchen (cercare) i Tedeschi fanno il participio presente, suchend, e lo usano sostantivato, der Suchende (colui che cerca) per designare quegli uomini che non s'accontentano della superficie delle cose, ma d'ogni aspetto della vita vo- gliono ragionando andare al fondo, e rendersi conto di se stessi, del mondo, dei rapporti che tra loro e il mondo intercorrono. Quel cercare che è già di per sé un trovare, come disse uno dei più illustri fra questi «cercatori», e precisamente san- t'Agostino; quel cercare che è in sostanza vivere nello spirito.
Suchende sono quasi tutti i personaggi di Hesse: gente inquieta e bisognosa di certezza, gente che cerca l'Assoluto, ossia una verità su cui fondarsi nell'universa- le relatività della vita e del mondo, e tale assoluto trovano — se lo trovano — in se stessi. Facendo uso di un titolo pirandelliano, si potrebbe dire che «trovarsi» è l'ansia costante di questi personaggi: pervenire a quella consapevolezza di sé che permette alla personalità di realizzarsi completamente e di vivere, allora, real- mente, quelle ore, quei giorni, quegli anni che vengono di solito sciupati nella ba- nalità quotidiana d'una esistenza «d'ordinaria amministrazione». Con Gide, Hesse potrebbe dire di sé: «Le seul drame qui vraiment m'intéresse et que je voudrais toujours à nouveau relater, c'est le débat de tout étre avec ce qui l'empéche d'étre authentique, avec ce qui s'oppose à son intégrité, à son intégration». Nella mag- gior parte dei romanzi di Hesse i personaggi muovono a questa scoperta di sé at- traverso le circostanze esteriori del mondo moderno: Peter Camenzind, il solido montanaro svizzero divenuto scrittore di successo, negli ambienti intellettuali di una pacifica Europa all'inizio del secolo; Demian, o meglio il suo succube Eugen Sinclair, nella vita studentesca delle università tedesche, agitate dal presagio del- l'imminente guerra mondiale (1914), che tante vite avrebbe falciato in quella gio- ventù, risolvendone, o meglio lacerandone e troncandone brutalmente i problemi.
Nel racconto che qui si presenta, invece, Hesse ha preso il suo personaggio principale, der Suchende, e l'ha collocato pari pari in un ambiente favoloso e pit- toresco quale l'India del secolo VI avanti Cristo, ormai impaziente dell'antica or- todossia brahminica, e della relativa costituzione sociale, e pullulante di predica- tori, profeti, anacoreti, fachiri, monaci mendicanti e digiunatori solitari. Tutti co- storo interrogano, tormentano e rivolgono in tutti i sensi le affermazioni dei testi sacri della India: gli antichissimi inni dei Veda, con i posteriori commenti in pro- sa dei Brahmana e delle Upanishad. Una folla sempre più numerosa s'impa- dronisce di questi testi, il cui studio avrebbe dovuto essere esclusivo privilegio del- la casta dei Brahmini, cioè dei sacerdoti di Brahma, la prima e più alta delle quat- tro classi sociali riconosciute dalla antica religione dell'India, esclusivi depositari

della sapienza divina, unici intermediari fra l'uomo e Dio per mezzo del complica- tissimo rituale dei sacrifici, delle formule magiche ch'essi soli conoscono, dei testi sacri ch'essi soli capiscono (o dicono di capire), e come tali superiori anche alla classe dei Ksciatrya, guerrieri e principi, usciti dalle braccia di Brahma (mentre i Brahmini, i = nati due volte », erano usciti dalla testa); per non parlare dei Vai- cya, contadini e mercanti, usciti dal ventre di Brahma, e dei Sudra, umili manova- li, usciti dai piedi del Dio. Sotto a tutti, poi, stanno i Paria, che non sono una ca- sta, non sono uomini, non sono nulla, non hanno nemmeno il diritto di esistere.
Pesava ormai il dispotismo sacerdotale dei Brahmini. Pesava sul terreno socia- le e politico. Ma poi-ché era fondato su princìpi religiosi, fu sul terreno della reli- gione che i Brahmini vennero attaccati. Quei libri sacri di cui essi non compren- devano più lo spirito, avendone ridotto la lettera a un formula-rio meccanico e in- sensato, divennero oggetto di meditazione e di studio ad uomini d'altre classi che i Brahmini. In questa terra dell'India pare che gli uomini vengano al mondo con un dono particolare per la speculazione metafisica e la ricerca delle cause ultime. La sete dell'Assoluto, il disprezzo della vita terrena, con i suoi agi e i suoi obblighi, sono comuni a turbe di Diogeni cenciosi, i quali trovano naturalissimo di farsi mendicanti per occuparsi unicamente della ricerca dell'infinito e della soluzione dei problemi supremi. Il sole ardente che sviluppa la vegetazione lussureggiante della giungla pare vi alimenti anche l'incontenibile vigore della fantasia, che av- volge d'ogni parte il pensiero e quasi lo soffoca in una rete inestricabile d'immagi- ni, di miti, di strane e pittoresche personificazioni.
Poco dopo che la predicazione di Vardhamana, soprannominato Mahavira (grande eroe) o Jina (il vittorioso) aveva dato origine alla nuova religione del giainismo, un nuovo caso si ebbe — e più clamoroso e destinato a immensa riso- nanza — d'un giovane d'illustre stirpe che, toccato da una rivelazione interiore, abbandonò la casa, la famiglia, il lusso e gli agi della vita per dedicarsi in soli- tudine alle più dure penitenze e iniziare quindi, in povertà, la predicazione d'una nuova dottrina. È appena il caso di ricordare al lettore italiano l'analogia con casi a lui ben noti, come quelli di san Francesco d'Assisi, di Jacopone da Todi.
Se il Mahavira era figlio d'un cospicuo barone a nome Siddharta, uno tra i membri più eminenti del senato nel suo paese, il nuovo profeta, chiamato a tanta altezza, era addirittura l'erede d'un trono. Nato a Kapilavattu nel 563 a.C., si chia- mava anche lui Siddharta, ed era figlio del re Suddhodana, della famiglia Gotama (o Gautama) e della nobile stirpe dei sakya (onde il nome di Sakyamuni, il solita- rio, l'eremita dei Sakya, con cui è spesso designato). Aveva moglie e figlio, 'quan- do a trent'anni lo toccò, per mezzo di macabre visioni, la rivelazione della vanità di questo nostro mondo. Abbandonò gli agi del proprio palazzo, fuggì dai suoi cari e, cambiati i propri abiti con quelli d'un mendicante, si pose alla scuola di due dotti Brahmini. Ma, insoddisfatto dell'insegnamento ufficiale, si diede a vita d'ana-

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