2. Nel male

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A Chuuya non piacque, non piacque nulla di quella felicità che il moro gli aveva promesso.

O forse semplicemente la felicità non era un'emozione per lui.

Non gli piacque la sensazione mordente della fibbia della cintura di Dazai che gli stringeva il braccio, che gli bloccava la circolazione per far spuntare il disegno azzurro delle sue vene sotto la pelle chiara; non gli piacque la puntura che sentì sulla pelle e ancora meno il bruciore doloroso della morfina che, spinta dallo stantuffo, andava a confondersi col suo sangue.

Era un dolore che scottava, era un dolore solido e aveva l'impressione che l'altro gli stesse facendo un iniezione di cemento.

"In vena ti sale prima."

E meno di tutto gli piacque la destrezza con cui Osamu fece il tutto, la scioltezza nel preparare le siringhe, nel bucargli e bucarsi la pelle, nel trovare le sue vene e la leggera difficoltà nel cercare dove bucarsi lui stesso, come se già non ci fosse più posto.

"Non è la prima volta che lo faccio."

"Meglio la sinistra."

"Così è troppo poca."

"Fidati di me."

Ma più lui parlava e più Nakahara non si fidava, più Osamu insisteva nel porsi come scoglio solido a cui appigliarsi, più dava sfoggio della sua esperienza, più lui si agitava perché c'era qualcosa di tremendo in tutto ciò, nella sua abitudine, perché nonostante avessero già fatto cose tremende, nonostante entrambi sapessero che non sarebbero vissuti a lungo, la nuova, o forse vecchia, abitudine del compagno gli sostituiva il respiro con la nausea in un modo che non riusciva a comprendere.

Una nuova sensazione a cui non avrebbe mai dato un nome, perché per farlo allora avrebbe dovuto confessare all'altro tutto quel suo tumulto interiore e già sapeva, come ogni volta che si finiva per parlare di Dazai con Dazai, che non sarebbe servito a nulla.

Ogni cosa era chiusa a doppia mandata in un cofanetto non tanto dissimile da quello in cui teneva la Morfina, magari era addirittura lo stesso:

-E adesso?-

C'era una certa impazienza nella voce di Nakahara, che si rivolse al compagno senza nemmeno guardarlo, troppo impegnato ad esaminarsi l'interno gomito ed il minuscolo foro che l'ago si era lasciato dietro, quasi come se s'aspettasse di vedervi uscire fuori qualcosa di tremendo:

-Cosa dobbiamo fare?-

Continuò srotolandosi la manica del maglione beige che indossava, nella convinzione che se non si fosse visto il braccio allora non sarebbe successo nulla, dandosi la forza di continuare ad apparire inutilmente disinvolto e disinteressato nei confronti di qualsiasi cosa lui e l'altro avessero fatto, nei confronti di qualsiasi cosa stesse per accadergli.

Sinceramente non si spiegava nemmeno lui il motivo di questo suo atteggiamento altezzoso, forse aveva messo su quella facciata per poter, in qualche modo, gareggiare contro l'esperienza di Dazai, un'arma improvvisata per un duello patetico che il moro nemmeno sapeva di star combattendo.

Magari era un tentativo d'ingannare se stesso, autoconvincendosi del fatto che non ci fosse alcun motivo per agitarsi, tutto andava bene, tutto sarebbe andato bene.

O magari era solo mangiato dal suo orgoglio, come sempre:

-Adesso aspettiamo.-

Rispose Osamu sdraiandosi piano, poggiando prima la schiena, vestita di lino bianco, poi la nuca sul pavimento, stiracchiandosi un momento, calciando involontariamente la sua cintura con un piede prima di socchiudere gli occhi, le mani abbandonate sul petto e le siringhe a tenergli compagnia accanto al volto:

― 𝐂𝐨𝐩𝐲𝐜𝐚𝐭 *̥˚ 𝐬𝐨𝐮𝐤𝐨𝐤𝐮Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora