4. Per il prossimo

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 La porta d'ingresso dell'appartamento di Dazai era socchiusa e quello fu il secondo campanello d'allarme a suonare nella mente di Chuuya, il primo trillò giusto un'ora prima, nella parte non turistica del porto di Yokohama.

Era giovedì, un giovedì fiacco nella vita di Chuuya, un giovedì che Mori si era sentito in dovere di riempire con l'onere d'assicurarsi dell'arrivo d'un determinato container contenente nuove armi contrabbandate dall'Europa.

Un compito talmente stupido che chiunque altro, uno qualsiasi dei suoi subordinati incapaci, sarebbe riuscito a portare a termine, ma il capo aveva decretato che sarebbe stato Chuuya a svolgerlo.

Rettifico: sarebbero stati Chuuya e Dazai a svolgerlo perché Mori credeva, fortemente, in questa sua curiosa politica d'ufficio secondo cui ogni lavoro fosse, in realtà, un lavoro per due.

Politica assolutamente inutile e senza alcun fondamento perché Chuuya, ad aspettare al porto e ad assicurarsi dell'arrivo del container numero 1697, trovandolo e segnalandone l'arrivo al suo capo dopo quaranta minuti di attesa, restò da solo.

Dazai non si fece vivo nemmeno a lavoro finito, come già era successo in passato dato che il moro era avvezzo a fare questi ritardi strategici per via della sua "pigrizia mattutina" come la chiamava lui, oppure "dopo sbronza che ti lascia scemo" come lo correggeva sempre Chuuya.

Dazai non scrisse ne chiamò il fulvo, nemmeno una misera notifica gli apparve sullo schermo del telefono, nonostante il suo ossessivo spegnere e riaccendere lo schermo.

Venti, trenta minuti, una volta lesse che in media si controlla il proprio cellulare ottantacinque volte al giorno, in quel Giovedì pigro lui doveva aver già abbondantemente superato le cento volte: milleottocento secondi d'attesa, zero notifiche e undici sigarette.

Fino a qualche mese fa avrebbe detto d'essere arrabbiato, essere stato lasciato solo a svolgere un compito noioso, essere stato ignorato e dimenticato dal proprio compagno che, evidentemente, si sentiva troppo al disopra delle cose per venire a lavorare, ora invece si rendeva conto d'essere nervoso, agitato, si rendeva conto di provare un prurito nel fondo della gola che non poteva grattare ma che gli faceva venire voglia di fumare, una sigaretta dietro l'altra senza nemmeno finire quella precedente.

Aveva imparato ad associare il nervosismo, l'inquietudine, al sapore amaro del fumo.

Ogni volta che fumava era nervoso, ogni volta che voleva fumare allora sapeva che era agitato per qualcosa che era successo, per qualcosa che doveva succedere.

Ansia e dipendenza erano collegate per lui e non riusciva a distinguere una cosa dall'altra, forse anche perché la smania di vedere il fumo scivolare dalle sue labbra, la smania d'avere le dita impegnate, era la stessa cosa che avere paura di morire prima d'una missione, era la stessa cosa che stare male.

"L'essere umano è dipendente, il bisogno è il suo stato naturale"

gli disse una volta lo stesso uomo che più gli faceva venire voglia di fumare.

Ed ogni tanto aveva finito per chiedersi se la sua umanità non fosse strettamente collegata alle sue dipendenze.

Una sostanza nel vuoto del suo passato.

Bastarono solo altri dieci minuti d'attesa per consumare totalmente la pazienza di Chuuya riducendola all'osso, facendogli stringere il telefono fino a farsi sbiancare le nocche della mano sinistra.

Sbuffò violentemente dal naso quando, finalmente, decise d'andare a cercare il suo collega, d'andare a bussare alla sua porta fin quando questo non si fosse svegliato, fin quando non l'avrebbe buttata giù solo per poter entrare in quella sua catapecchia di casa per poterlo prendere a schiaffi, a calci.

― 𝐂𝐨𝐩𝐲𝐜𝐚𝐭 *̥˚ 𝐬𝐨𝐮𝐤𝐨𝐤𝐮Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora