La mia rovina

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“Em?” sorpresa di aver letto quel nome sul display lampeggiante del mio cellulare, risposi, restando in attesa di sentire la sua voce alterata dalla tecnologia. 

“Si può sapere cosa diavolo ti sta succedendo?” la voce della mia amica, dall’altra parte del capo, risultava essere piuttosto alta ed intransigente.

“Ma dai, Emi. Cosa vuoi che mi prenda? Sono solo un po’ stanca. Mi sembra alquanto normale dopo uno stressante primo giorno di scuola.”

“Ah, giusto. Quindi è per questo che non appena la campanella ha annunciato la fine delle lezioni, sei andata via per conto tuo senza aspettarci e soprattutto senza aspettare tuo fratello.” Il suo tono era convinto e sicuro, si capiva dal suo modo di scandire le parole e da come si soffermava sui vari segni di interpunzione immaginari, per dare maggior risalto al concetto che voleva, a tutti i costi, rendere chiaro: non ero stanca; o almeno, non nel modo che volevo farle intendere.

“A proposito: com’è andata la mini-passeggiata con Josh?” tutti i miei neuroni si impegnarono nel trovare uno stratagemma per cambiare discorso. 

Dai su piccolini, ho bisogno di voi!

“Non ci provare.” Devo farlo. Non puoi sapere, Em, non puoi. Sbuffai, cercando di sembrare sorpresa ma nascondendo, in realtà, ciò che lei non avrebbe neppure potuto immaginare e non avrebbe mai dovuto sapere, come tutti.

“A fare cosa, scusa?”

“Cri, non sono una bambina. Non mi prendere in giro. So che non va tutto bene, lo vedo. E non ricominciare con la storia della stanchezza, non è quella. È da quando sono arrivata a Boston che sei stanca. Quattro anni, Chris. Son passati quattro anni. Quattro anni che mi racconti balle.” Ormai il suo tono diventava sempre più inflessibile, minuto dopo minuto e questo mi preoccupava e mi rendeva ansiosa. 

La sua era apprensione, lo sapevo bene. Quello che però io mi portavo dentro non andava buttato fuori: non poteva e non doveva. Doveva restare lì. Ero ormai abituata a convivere con quel peso: avevamo un accordo.

 Lui mi complicava la vita ma, in compenso, mi lasciava sopravvivere ed io lo lasciavo fare perché non avevo la forza e il coraggio di combatterlo.

“Non ti racconto balle, Em. Perché non mi credi? Non ti fidi più di me, giusto? Lasciami in pace. Non voglio parlare.” Una lacrima scese lungo la mia guancia, rigando il mio volto, nonostante la mia voce non facesse una piega: restò forte e non si fece intimidire.

“Cris, non riagganciare, io..” Troppo tardi: il tasto, da me premuto, fece il suo dovere e chiuse la chiamata, diventata ormai insostenibile.

Chiusi la porta della mia camera, appoggiandomici contro mentre, pian piano, mi lasciavo scivolare, fin quando non mi sedetti sul pavimento. 

La testa diventò pesante e a nulla servì sostenerla con le mani. Un dolore forte mi strinse il polso e, sollevando di poco la leggera felpa, una cicatrice violacea entrò nella mia visuale. Strinsi forte il polso per sentire meno dolore e soprattutto per scacciare le immagini che riaffiorarono nella mia mente. La presa diventò sempre più salda finché la mano cambiò leggermente di colore e persi la sensibilità. Lasciai il polso cadere a terra ed appoggiai la testa contro porta, portando lo sguardo al soffitto.
Una fitta al petto mi fece trasalire. Gli occhi mi pizzicarono ed il bruciore si fece sentire, ma da essi non uscì alcunché. Le lacrime non lavavano più il dolore dai miei occhi: avevano terminato l’acqua che era disponibile in riserva. Solo raramente qualche goccia rigava il mio viso, ma era solo il liquido rimanente sul fondo della dispensa.

“Chris?” una voce sottile attraversò la porta e si intrufolò nelle mie orecchie. “Chris, ci sei?” 

“Julie?” abbassai lentamente la maniglia, preparando l’ennesimo sorriso finto. “Che succede?” 

You could be my only cureDove le storie prendono vita. Scoprilo ora