Prologo

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Febbraio 2016

La stanza del motel è squallida, puzza di disinfettante scadente e sigaretta. Ho percorso quasi duecento miglia per raggiungere questo posto del cazzo, e da più di quaranta minuti sto aspettando, con i nervi tesi come una corda di violino. Eppure non mi importa, l'unica cosa a cui riesco a pensare è che mi sono ficcato in un casino più grande di me, e ne uscirò con le ossa rotte.

Nel migliore dei casi.

Sento il rumore di un'auto che attraversa il parcheggio. C'è solo una pallida luce d'emergenza a illuminare la mia camera, così scosto la tenda quel tanto che basta per scorgere una coppia.

Falso allarme.

I due lanciano occhiate furtive al nulla che li circonda mentre scendono dalla macchina, posteggiata proprio accanto alla mia moto. Si prendono per mano e raggiungono in fretta la guardiola dell'affittacamere, ansiosi di iniziare la loro scopata clandestina.

Mi abbandono sulla sedia e bevo un sorso di caffè dal thermos che Louise mi ha fatto trovare sulla scrivania del Distretto questo pomeriggio. Ho detto alla mia partner che avevo una questione personale da risolvere, ma se solo potesse immaginare che le ho mentito, opterebbe per del cianuro al posto dello zucchero. D'istinto raddrizzo la schiena, sento un rumore tanto impercettibile che temo sia solo la mia immaginazione. Afferro la Glock dalla fondina abbandonata sopra il comodino e mi accosto alla porta. Passi ovattati si fanno sempre più vicini, fino a fermarsi davanti alla mia camera. Stringo più forte l'impugnatura dell'arma, ogni muscolo è pronto a scattare, carico di adrenalina.

«Apri, sono io.» Quella voce familiare è la sola cosa che desideravo sentire, ma ancora non posso fidarmi. Il mio cuore lo sa, sa che dovrei fare attenzione, ma se ne fotte e inizia a battere come impazzito.

Afferro la maniglia e con un gesto secco spalanco la porta. Non mi concedo di guardare in faccia la ragazza che ho di fronte, senza alcun riguardo le afferro il braccio e la trascino dentro, chiudendo in fretta alle sue spalle. La luce azzurrognola del corridoio viene inghiottita dalla penombra della camera, e noi restiamo in silenzio uno davanti all'altra per un interminabile secondo.

«Dove cazzo sei stata?» La mia voce è dura, quasi crudele. «Per due settimane hai ignorato i tentativi di contattarti.»

«Ho avuto altro da fare, Aiden», replica asciutta. Indossa una felpa oversize e un paio di pantaloni sportivi, ma ha lo stesso atteggiamento di quando sfila tra i tavoli dei locali più prestigiosi della contea, con abiti da sera e diamanti.

«Tu non puoi avere altro da fare, te lo vuoi ficcare in testa?» Sto schiumando di rabbia, mi controllo a stento. «Sei una collaboratrice della polizia di Sacramento, le nostre mosse dipendono dalle informazioni che ci hai promesso, Davies.»

Evito di chiamarla per nome. Tenere le distanze da lei mi costa uno sforzo enorme, per questo mi attacco disperato a quel genere di cazzate: utilizzare il cognome, niente contatti fisici, nessuna confidenza privata. Loro, gli informatori, sono abili manipolatori e farsi fregare è questione di un attimo. Lo insegnano durante l'addestramento, e io lo so perché sono un bravo poliziotto. Uno dei detective più promettenti della contea.

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