3. Il disegno

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I giorni successivi rimasi ancora scossa da quanto accaduto. Ancora non riuscivo a credere a tutto ciò che era successo, o forse non volevo crederci. Lasciai scorrere le interminabili, seppur poche, ore di scuola che si succedevano ogni giorno; ero assente mentalmente, provavo a stare attenta alle spiegazioni, ma mi ritrovavo sempre a mordicchiare il tappo della penna ed a fantasticare guardando fuori dalla finestra. Il cielo era quasi sempre di un grigio biancastro opprimente, il sole era ben nascosto dalla coltre di nuvole e dalla foschia che ogni mattina puntualmente non voleva alzarsi. Eppure, nonostante la sensazione di vuoto immane che mi dava, riuscivo a rispecchiarmi in quel cielo, leggevo il mio stato d’animo così vuoto, così vicino al baratro che mi separava dal nulla. 

Venni risvegliata da una gomitata della mia compagna di banco, Marta, che non aveva capito una parte della spiegazione di storia, o forse era rimasta troppo indietro a scrivere: lei non riusciva quasi mai a stare al passo con nulla. Feci spallucce alla sua richiesta di aiuto, non volevo parlare durante la lezione della Bianco, anzi, proprio non volevo spiaccicar parola. Altra gomitata da parte di Marta, a cui stavolta risposi con una smorfia di dolore misto a fastidio. Per lo meno, iniziai a scarabocchiare qualcosa sul quaderno riguardo alla fondazione di Roma, argomento che già conoscevo bene, ma non volevo deludere nessuno; tra l’altro, la Bianco ogni tanto chiedeva i nostri quaderni per vedere se facevamo i compiti e se erano completi di appunti, per poi mettere un voto. Almeno io ero pignola sull’ordine, quindi non avevo problemi ad accontentarla, da questo punto di vista. 

L’ora successiva fu occupata dalla Abanesi, con cui facemmo un esercizio di ascolto e comprensione. Trovavo semplici queste lezioni, capitava di annoiarmi, quindi disegnavo. Il mio libro di grammatica sembrava un graffito su carta, ogni pagina svolta aveva almeno un paio di scritte o bozzetti per disegni che avrei realizzato in un secondo momento, con più calma, a casa. 

-Cos’è questo? -. Era lei, la Abanesi, col capo chino su di me; mi stava fissando mentre disegnavo di fianco ai vero o falso a cui avevo già risposto. Cercai di nascondere l’opera con l’avambraccio, abbozzando un sorriso da finta innocente. 

-Niente, niente.. -. Lei ovviamente non mi credette. 

-Puoi stare dopo lezione, per favore?-. Ecco, mi sarei sorbita una filippica sullo stare attenta in classe, sul non disegnare, e le solite raccomandazioni che gli insegnanti si sentivano obbligati a fare agli alunni che non seguivano le lezioni. Sbuffai. 

Mancava poco, almeno, alla campanella. Non sapevo se volevo veramente parlarle: lei sembrava preoccupata per il mio comportamento, ma così come sarebbe stato qualsiasi suo collega, eppure i suoi occhi chiari mi dicevano altro, nel parlarmi si erano incupiti. 

Appena suonò, i miei compagni uscirono, chi con la scusa di andare in bagno, chi per stare fuori dall’aula a sgranchirsi le gambe fino all’imminente arrivo dell’insegnante della terza ora. Io mi alzai e seguii la Abanesi, che mi fece cenno di seguirla fuori. Ci appoggiammo entrambe con una spalla al muro, di fianco alle macchinette, così da restare in disparte dal resto di classe, ma visibili per la professoressa di scienze che già stava arrivando a passo svelto, la quale acconsentì a farmi star fuori, dato che ero in compagnia della sua collega. 

-What’s happening, che ti succede? Ti vedo spesso distratta- iniziò lei, storcendo la bocca. 

-Nulla, sono solo stanca. A casa siamo agitati, mio padre mi preoccupa, ha delle terapie da seguire che sembrano finire da un momento all’altro, ma poi deve riprendere- sbottai, con un tono di voce il più calmo e basso possibile, ma non riuscii nell’intento e mi agitai, gesticolando più di quanto volessi, come mi capitava quando ero nervosa. 

-Terapie? -. 

-Sì, tumore, va avanti da qualche anno, ormai-. Abbassai lo sguardo, che finì sulle mie converse. Non volevo sembrare fragile davanti a lei, ma ormai mi stavo esponendo. Lei sospirò. Sentivo il suo sguardo apprensivo su di me; la sua mano si posò sul mio braccio e mi strinse, sentii il calore che emanava e sorrisi, alzando il volto verso di lei. Sorrisi debolmente, colpita dal suo gesto così premuroso. 

-Se hai bisogno di parlare non esitare, ci sono-. Alle sue parole annuii e la ringraziai, per poi tornare in classe. 

Durante l’ora di scienze pensai a quello che era appena accaduto. La Abanesi sembrava veramente preoccupata per me; sotto la sua corazza da insegnante dura come una roccia c’era del tenero, allora. Sorrisi. 

Una volta a casa, iniziai a disegnare meglio uno dei bozzetti a cui avevo pensato durante l’ora di inglese: era un torso di scheletro, gabbia toracica e bacino, a cui erano attaccate una rosa ed una farfalla blu. Usai due matite per sfumare al meglio le ombre delle costole e mi presi il giusto tempo per capire come colorare il fiore. Iniziai dai petali esterni, i più fragili e prossimi a cadere, per poi avanzare verso il cuore interno, più morbido e duraturo. Passai l’intero pomeriggio e la sera a colorare, libera da qualsiasi pensiero che non riguardasse le matite. 

Il giorno dopo portai il blocco da disegno a scuola, mi mancava così poco che avrei potuto finirlo durante la ricreazione. Portai anche i colori che mi servivano, varie tonalità di blu e nero per la farfalla. 

Alla terza ora avevamo ancora la Abanesi, che più di qualche volta mi lanciò sguardi per vedere se fossi attenta alla lezione. Avevo l’album con il disegno sotto il quadernone ad anelli, ben nascosto dal libro di grammatica di fianco, aperto alla pagina degli esercizi che stavamo svolgendo collettivamente. Stavamo iniziando i verbi modali, argomento che ci aveva preannunciato fosse difficile da capire, quindi avremmo passato ore ad affrontarlo. Sinceramente, io non vedevo così tanta difficoltà, anzi, mi destreggiavo piuttosto bene tra i doveri ed i divieti in inglese. Non vedevo l’ora che suonasse la campana, così avrei finalmente potuto finire il disegno, mio piccolo motivo di orgoglio. Fui accontentata relativamente presto, il tempo era passato velocemente, tutto sommato, così prontamente aprii il blocco e presi le matite, pronta ad immergermi tra le sfumature dell’ala di farfalla. Neanche il tempo di farlo, che subito mi sentii osservata. 

-Wow, so beautiful, is it for me?- era lei, la Abanesi. Alzai lo sguardo fino ad incontrare il suo, con una faccia stupita. Non pensavo fosse così curiosa, ma evidentemente sbagliavo. Lei sorrideva a trentadue denti, i suoi occhi si alternavano tra me ed il foglio su cui stavo lavorando.

-Oddio, lo sto facendo per me, ma se vuole potrei regalarglielo- accennai un sorrisetto, diventando sempre più piccola e imbarazzata. Mai nessuno mi aveva vista mentre disegnavo, di solito mi chiudevo in camera da sola. 

-Promise me!-. Sorrisi ancora, intenerita dalla sua faccia buffa e sicura. 

-Prometto, lo finisco e sarà suo, va bene? -. Dissi, e la guardai andar via mentre sorrideva contenta. 

Ero in crisi, paralizzata dalla breve conversazione appena avuta: non avevo mai regalato nulla, figuriamoci ad un’insegnante che conoscevo appena da tre mesi. Non sapevo che fare, se rispettare davvero la promessa o far finta non fosse successo niente e proseguire. 

Passai tutta l’ora di matematica a pensare alle parole della Abanesi, finché due mie compagne erano interrogate. Poggiai il gomito destro al banco e il mento sul palmo della mano. Finsi di guardare l’espressione alla lavagna, ma con la testa ero altrove. Ancora non riuscivo a credere di averle promesso il disegno. 

Una volta a casa, mangiai in fretta,eravamo tutti riuniti, come sempre. In poco tempo ero già su in camera, rinchiusa a finire il disegno, che sembrava essere l’unica cosa che mi importasse: volevo renderlo ancora più bello e delicato di quanto riuscissi,senza che si vedessero eventuali segni dovuti dai colori non troppo adatti, ma erano gli unici che avevo. Avrei voluto prendermi un set serio, prima o poi, appena avrei avuto qualche soldino messo da parte, magari delle Derwent, o ancora meglio le Caran d’Ache. 

Terminai il disegno nel tardo pomeriggio, poco prima di scendere per cena. Ci avevo davvero messo il cuore e tutta me stessa, e speravo lei l’avrebbe visto. 

Life in black, white and blueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora