03. False speranze

178 15 12
                                    

⊰ PENELOPE ⊱

                  APRI' GLI OCCHI CHE il mondo era fatto di luce e calore, di bianco e di tiepido, accecante per gli occhi e soffocante per la pelle. Sulle mani, sui capelli, addosso aveva l'odore della terra umida di pioggia. Era piovuto solo poche prima.

Nemmeno la pioggia mandata da Zeus era riuscita ad aiutare l'albero. Peggior sconfitta fra tutte: non c'era riuscita nemmeno lei.

Due giorni erano che l'albero stava così, e più le ore passavano più i figli di Demetra avvertivano il suo indebolirsi. Katie ed Elijah, gli unici che la figlia di Ermes conosceva meglio, parevano sfiancarsi allo scorrere dei secondi. A passare le mani sul tronco, la corteccia iniziava a venir via come carta straccia.

In quattro giorni, in tanti avevano cercato di risolvere la situazione e salvare l'albero prima che fosse troppo tardi. S'era chiesto aiuto a Chirone, in principio, poi ai figli di Demetra, ai figli d'Apollo e di Ermes. Diversi semidei indeterminati, anche, s'erano messi al lavoro. Nessuno, fra i tantissimi tentativi, era riuscito a capire cosa fosse successo.

La certezza era una: l'albero era stato avvelenato. Le incognite, al contrario, erano tantissime. Si sapeva che il veleno che l'aveva intaccato era potente ma nessuno conosceva il suo nome. Non avendone dunque familiarità non si aveva idea di quale antidoto utilizzare. Anche se, sospettava Penelope, l'antidoto non c'era proprio.

Penelope aveva speso ore seduta lì, fra le radici di quel possente pino, gli occhi fissi sul tronco e lucidi come una perla levigata dal mare. Non poteva esser vero. No, non quel pino.

Non Talia.

La frustrazione dilagava, s'espandeva come scuro petrolio sulla superficie delle acque. Non era riuscita ad aiutarla, e non poteva lasciare che morisse. Non di nuovo.

Si sollevò sui gomiti, la testa greve d'un sonno cattivo. Che ora fosse, non avrebbe saputo dirlo. Doveva essersi addormentata lì, sempre fra le radici del pino. Il bosco era ventilato, le ombre inghiottivano la luce del sole e preservavano il fresco degli alberi.

Guardò giù, verso la valle, ed il Campo Mezzosangue era irrealmente silenzioso. Posato su di esso v'era un velo di innaturale quiete, che tratteneva il calore di quel giorno di fine maggio e gravava sulle cose. Era la quiete sbagliata, la quiete dei fondali oceanici. Silenzio, solo silenzio.

I suoni erano così assenti che, a tratti, quel silenzio era come il rombo di un tuono nel cielo terso.

Ogni cosa si muoveva di un'impercettibile vibrazione, come le corde di uno strumento. La quiete che poi quiete non era si sarebbe presto infranta. Ad alzare gli occhi al cielo, alle bianche nuvole che ne solcavano gli azzurri, l'aria pareva fremere come quando fa troppo caldo. Le barriere magiche che proteggevano il campo si stavano indebolendo con il prosciugarsi dell'energia vitale dell'albero. Nessuno di loro era più al sicuro lì. Se le barriere fossero crollate definitivamente, il Campo Mezzosangue sarebbe stato esposto al mondo, nudo come pietra ai pericoli esterni.

La quiete dunque quiete non era; tensione era la parola giusta.

Alzò lo sguardo ai rami dell'alto pino. Gli aghi erano gialli, secchi, diversi mucchi erano sparsi sul terreno. Non guardò il segno della puntura, non ci riuscì. Cerco di ricordarsi che non tutto era perduto, e che sarebbero riusciti a trovare una cura.

Aveva chiesto una mano anche a Teti, ma la ninfa non era riuscita a fornirle alcun aiuto. Una di quelle notti, s'erano incontrate sulla spiaggia, e nel silenzio del buio la dea s'era avvicinata all'albero. Aveva provato a sottrarre il veleno dalla linfa, a separare le due sostanze con i suoi poteri, ma non v'era stato modo. Aveva detto che era passato troppo tempo.

FEATHERS, Annabeth Chase ¹Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora