XIV.

7.3K 419 413
                                    


⚠️ TRIGGER WARNING ⚠️
Questo capitolo contiene scene e descrizioni forti di violenza. È sconsigliata la lettura alle persone troppo sensibili.

❄︎

Buio. Era tutto ciò che riuscivo a vedere.

Silenzio, a parte il mio respiro accelerato, era tutto ciò che riuscivo a sentire attorno a me.

Muffa e puzza di chiuso, gli unici odori che percepivo.

Le mie unghie della mano sinistra continuavano a graffiare il pavimento roccioso in cui mi trovavo seduta, mentre con l'altra andavo a tentativi nel buio fitto per cercare di trovare qualcos'altro, per formare nella mia mente un'immagine nitida del luogo in cui mi aveva portato, usufruendo solo del mio tatto, perché la mia vista era stata azzerata.

La mia memoria, indispettita, continuava a farmi ricordare il motivo per cui fossi lì. Mi faceva tornare in mente la presa salda di Dantalian e le sue urla, Nivek che, tremante e pieno della rabbia che non era in grado di gestire, mi chiedeva solo cosa avesse fatto per meritarlo. Amos che cercava di fermare il flusso di sangue con un pezzo della sua camicia, Myn che mi guardava torva, Odelia che tentava di placare la reazione di Denholm che sapeva sarebbe arrivata. Che sapeva, come tutti, che si sarebbe schiantata su di me come le onde di un mare agitato in pieno inverno su uno scoglio.

Poi ricordavo le cose a tratti, come se da quel momento il mio corpo fosse stato inserito in una busta piena di ovatta. Ricordavo la presa dolorosa di Denholm, sostituita a quella di Dantalian, e ricordavo la sua altra mano che era andata a stringermi i capelli con violenza, strascinandomi dietro di lui. Ricordavo il silenzio improvviso, ricordavo le sue parole sussurrate piene di soddisfazione mentre mi portava dove ancora non sapevo sarei finita. Mi aveva fatta scendere delle scale mai viste prima, vecchie e arrugginite, e mi aveva buttato in mezzo ad una stanza vuota. C'eravamo solo io e lui, come sapevo che desiderava dalla prima volta che mi aveva visto.

Dalla prima volta sapevo che desiderava piegarmi, domare la mia parte ribelle, e modellarmi come aveva fatto con tutte le altre ragazze di quel posto. E io gli avevo dato ciò che desiderava, pur di salvare qualcuno che non ero io, ancora una volta.

Perché avevo sempre preferito soffrire io, io che sapevo come gestirlo, il dolore, io che ormai ero abituata ad esso, piuttosto che vedere qualcuno inesperto soffrire, sapendo che per diventare insensibile come me avrebbe dovuto viverne troppo. Che avrebbe dovuto spezzarsi, piegarsi, e che piangere non sarebbe servito a nulla, perché le lacrime non facevano altro che nutrire il dolore che si stava cibando della nostra essenza.

Eppure avevo pianto. In silenzio, ma avevo dato al mostro quel cibo di cui tanto godeva.

Avevo incassato i suoi colpi, i suoi calci allo stomaco ben piazzati, con la punta di ferro dei suoi stivali che scavava quasi fino a toccare i miei organi, con le sue mani che mi afferravano i capelli e li tiravano con violenza per avvicinarmi al suo viso, urlando qualcosa come "è questo che succede quando non fai la brava". Non avevo fiatato, non mi ero difesa. Avevo solo incassato.

Anche quando mi ero girata in automatico per tentare di sfuggire ai suoi calci allo stomaco, lui non si era fermato. Aveva continuato a colpirmi, ma stavolta alla schiena. Avevo anche sentito le mie ossa fare "crack" e se fossi stata umana probabilmente non avrei più potuto camminare, tale era la crudeltà che metteva nei suoi colpi.

TecumDove le storie prendono vita. Scoprilo ora