Racconto II, capitolo uno: "LACRIME"

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Nacqui lungo le rive di un fiume, figlio d’un amore sbocciato in un periodo in cui tutto poteva esserci al mondo, tranne l’amore. Mio padre era alto, dallo sguardo ghiacciato e stanco di chi di anni ne ha cinquemila. Lui però non ne aveva più di venti nella foto sul comodino. Forse di persona era diverso, forse quella faccia da vecchio ce l’ha avuta solo nel momento dello scatto. Forse. Non l’ho mai incontrato, se non in quella foto, ogni volta che entravo nella camera di mia madre. Lui, l’uniforme larga intorno alle spalle ancora strette, ancora un po’ bambine. Occhi da ottantenne montati sulle spalle di un quindicenne. Chissà cosa videro quegli occhi. Scendeva dalle terre infernali della Germania anni Quaranta, biondo ariano dagli zigomi sporgenti. Marciava spaventato dietro al suo capo, col fucile in mano e la svastica sulla spalla, nei giorni in cui l’Italia cadeva mangiata dal fuoco delle truppe naziste. Ma anche in un’epoca come quella, il Volturno scorreva placido nella valle sotto la nostra montagna. Intanto, mia madre compiva i suoi primi diciott’anni. Fazzoletto in testa e gonna marrone, andava al lavatoio con le altre donne del paese. Silenziose e intimorite nel passare vicino ai tedeschi armati fino ai denti. I paesini come il nostro allora erano pieni di sfollati: orfani, vedove, vecchi e disertori scampati a bombe e rastrellamenti. Mezzi morti di fame e spesso vestiti di stracci, imbruttiti dagli anni di guerra, venivano ospitati dai paesani. Quando diventarono troppi per le nostre casette tutte attaccate, cominciarono a dormire sotto gli alberi lungo la strada sterrata. Tutto era meglio di quello da cui scappavano: le città più grandi erano un incubo. A Roma non si poteva vivere. Sulla mia montagna di romani ne vennero solo due. Gli altri arrivavano da Caserta o da Napoli, e allora più che mai ai contadini quei posti sembravano lontanissimi. Pochi chilometri di binari e vigne correvano fra Esasca e Caserta. Anche da Roma non eravamo così lontani, eppure i palazzi e l’asfalto sembravano irraggiungibili, ed erano solo leggende quelle che parlavano di enormi piazze o del Colosseo. Troppo lontani, troppo irreali. Tutto quello che i contadini fra cui sono nato conoscevano era il carro con l’asino attaccato, i nostri campi, le fatiche di una vita, le canzoni popolari e il mandolino. L’italiano lo parlavano a malapena quelli che andavano a scuola e che al massimo facevano la quinta elementare. Sul mio monte la lingua ufficiale è ancora il vecchio dialetto, incomprensibile già per chi sale dalla valle. Tra di noi si parlava poco anche di Cavour o Garibaldi e tanto dei nostri piccoli eroi, che a noi sembravano enormi. Un mondo piccolo, il nostro, dove il Sole sorgeva e non tramontava mai oltre la fine della valle. L’epica del grande fiume, del Volturno che, scorrendo, raccontava migliaia di storie, che sapeva tutto quello che c’era da sapere. “Vallo a chiedere al fiume” dicevano sempre i paesani, a volte con ironia, ma sempre sinceramente credendo, nel profondo, che quel fiume conoscesse tutto.
Da noi si era fedeli a Gesù Cristo, ma un posto speciale nei nostri cuori e sui nostri altari ce l’aveva sempre avuto la natura che ci cullava. Madre dolce di ogni orfano sul nostro monte, aveva visto passarsi sotto gli occhi generazioni e generazioni di esascani. Sapeva gli alberi genealogici a memoria, e non c’era bugia che tenesse davanti a lei. Dei nostri peccati avremmo dovuto rendere conto al Creatore, ma anche davanti alle querce colossali, l’edera soffocante, le spighe di grano e, soprattutto, l’immenso Volturno bisognava comportarsi bene. Contadini un po’ cristiani un po’ pagani, devoti e consumati dalla vita nei campi, gente che non aveva mai visto niente di più grande delle nostre capanne, veniva catapultata in un mondo che si era fatto enorme: quello della seconda guerra mondiale. Mussolini non aveva disturbato più di tanto le nostre abitudini, quasi non si era sentito. Ma le camicie nere giravano, già negli anni ’20, armate e cattive. Si guardavano intorno cercando di riconoscere i comunisti e gli ebrei dalla faccia. Ma sul nostro monte di ebrei non ce n’erano, e nemmeno di comunisti. Non ne sapevano niente di politica, le duecento anime che abitavano la cima di quel monte. Ma poi capitolammo, e vennero i tedeschi. Allora non importò più se ebreo o cristiano, fascista o antifascista: eravamo italiani, italiani traditori. E se prima i paesini arroccati sui monti erano stati risparmiati dai plotoni nazisti, allora non ce ne fu più per nessuno. I tedeschi erano parassiti, e con loro le camicie nere: si attaccavano alla pelle nostra e della nostra montagna e succhiavano via tutto quello che potevano succhiare. Bestie, raccolti e vite. Era tutto loro, le pecore come le donne, il vino come le case più grandi. Si diedero alla macchia, scappando di nascosto, molti giovani di Esasca. Non fummo fascisti, ma neanche partigiani. Un po’ perché non ci capivamo niente, un po’ perché la vita ci piaceva farla imitando il fiume: scorrendo placidi.
Di tutti gli anni che passai ad Esasca non ricordo del fiume neanche una piena, neanche una volta la sua ira straripò dagli argini. E come le sue correnti noi nascevamo e morivamo in pace, in silenzio. Davamo ai nostri figli il nome dei nostri nonni, e così il tempo poteva continuare il suo corso tranquillamente: passava e faceva spazio fra le generazioni, ma quasi non si notava. Da secoli e secoli ad Esasca si vive allo stesso modo e tutti hanno gli stessi nomi e cognomi. Tutti uguali come le stagioni che vanno e tornano ogni anno. Così, la tranquillità delle giornate lungo le sponde del Volturno solo questa guerra riuscì ad incresparla. Prima corsero da noi i napoletani e i casertani, e dopo un po’ quei due romani. Dicevano che da loro non si poteva uscire di casa, che non c’era più niente. Parlavano dei nazisti come di bestie feroci, di lunghi binari, treni e gente stipata là dentro come mucche da macello. Non si sapeva dove andavano, non si sapeva se tornavano.
I rifugiati scappavano da loro e dalla fame, e chissà che faccia fecero quando li videro arrampicarsi fino ad Esasca! Io che racconto, tutte queste cose non le ho viste: sono nato nel ’45, negli ultimi mesi di guerra. E neanche crebbi in mezzo ai racconti su di lei: ad Esasca la gente non aveva nemmeno capito bene cosa fosse successo. Più di tutto volevano dimenticare i mesi infernali di occupazione, la confusione e la paura contadina di chi la Germania non sa nemmeno dov’è.
L’unica che un po’ mi raccontò fu mia madre. Ha diciott’anni più di me, lei, e si chiama Antonia. Le rughe in faccia, le ragnatele del tempo se le porta addosso già da giovane. Un po’ come mio padre, già vecchio a vent’anni. Lui invecchiato per la guerra, lei vecchia di nostalgia e d’amore, dei ricordi delle loro canzoni nascosti fra le fratte. Un nazista buono diceva mia madre. Aveva più paura lui di lei di quanta non ne avesse mai avuta lei della guerra. Da piccolo di lui seppi poco. Due parole ogni tanto, e il silenzio di una storia molto più lunga, nascosta dietro ai sospiri di mia madre. Non seppi mai tanto. Era goffo e buono. La guerra non gli piaceva. Diceva che voleva a tornare a casa, che sua madre era vecchia e malata. Era l’ultimo di dieci figli, l’unico rimasto dopo che gli altri tre maschi se li era portati via qualche proiettile, seppelliti chissà dove. Non gli mancava la Germania, perché lì la pace non c’era stata neanche prima del settembre del ’39. Gli mancava qualcosa che non aveva mai visto, e che il suo Paese non vedeva dall’inizio del secolo. Esasca gli sembrava un paradiso, così come il resto delle valli italiane lungo cui era disceso. Gli dispiaceva così tanto di doversi portare dietro il fucile, di dover devastare la pace incantata di quei luoghi. Gli dispiacque talmente tanto un giorno che ci pianse. “In Italia vorrei venirci con un fiore”, diceva e calciava lontano il fucile. “Un fiore per te”. Me lo racconta ora mia madre, ora che di anni ne ha novanta e la demenza senile le si è fatta strada nel cervello. Crede di essere nel ’46, Antonia, e cerca il suo bambino da allattare. Altri giorni crede di essere nel ’50 e mi parla come se fossi il fratello, zio Giuseppe. A volte per lei è il ’62 e mi caccia, cerca le sue amiche di sempre. Sono quasi tutte al cimitero, e mai ho il coraggio di dirglielo. Ma ci sono giorni in cui io per Antonia non sono nessuno. Non mi riconosce e mi dice “Siediti amico, che ti racconto di quando ero giovane”. Trema tutta e le lacrime le scorrono sulle guance, difficile il loro percorso fra le trincee del suo viso. Non sa chi io sia, e solo in quei momenti si sente libera di raccontarmi. A metà discorso spesso si spegne, finisce da qualche altra parte nel buco del tempo. La incalzo, ma non riesco quasi mai a recuperarla. Se questa demenza nella corsa furiosa al sistema nervoso di Antonia qualcosa di buono l’ha fatto, è stato raccontarmi da dove sono venuto. Mettendo insieme i pezzi dei vari racconti nelle tante giornate di buio di mia madre, ho scoperto di non aver mai nemmeno saputo il nome di mio padre. << Lui tornerà. Sta per tornare. >>
<< Ma chi? Chi sta per tornare? >>
<< Ma come chi? Rudi.>>
E con le mani cerca la foto sul comodino. Allora è lui Rudi, è mio padre. Non gliel’avevo mai chiesto, chi fosse e come si chiamasse. Ed era perché mi chiamavano crucco, i ragazzini nel paese. Orfano e bastardo mi dicevano. Nazista, tedesco. E mia madre era la puttana del paese, traditrice del suo popolo che nessuno ha voluto sposare. Per anni ho odiato lei, me e questo tedesco che mi impediva di essere completamente italiano. Il mio sangue a metà, la rabbia verso quelli che avevano ucciso così tanto...

DOMANI LA PARTE 2! ✴

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