2.1 Grantaire; le mécréant

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Erano le cinque e un quarto, o forse no.
   Aveva picchiettato con l'indice il quadrante rigato del suo orologio, ma la lancetta non aveva smesso di tremare, segnando ora le cinque e un quarto, ora le cinque e tre, ora le cinque e venti.
   Ringhiò trattenendo il filtro della sigaretta tra i denti – la tredicesima fino a quel momento – e si sfilò il telefono dalla tasca per avere un'idea più precisa.
   Le cinque e dieci.

   «Che cazzo, 'Taire...», la voce di 'Ponine, che lo aveva appena raggiunto, non gli fece né caldo né freddo.
Tornò a cincischiare con l'orologio rotto ancora per un po'; la sigaretta dritta faceva salire rivoli di fumo accanto al suo naso, e le sopracciglia erano corrucciate nell'espressione più concentrata che Grantaire potesse simulare; finché 'Ponine non ruppe di nuovo il silenzio incrociando le braccia e squadrandolo da testa a piedi.
   «Ti potevi vestire un po' meglio.»
Soltanto dopo quel commento Grantaire rilassò la fronte e alzò gli occhi per fissarla.
   Non disse niente.

Lei era splendida, comunque. Si era vestita leggermente più normale del solito, ma, lo sapevano entrambi, questo era dovuto al fatto che c'erano alte probabilità di incontrare Marius al Musain.
   «E tu invece? Che roba sarebbe questa?» Grantaire si sporse per toccarle un punto fra la coda dell'occhio e il sopracciglio, lì dove 'Ponine aveva marcato una striscia di ombretto azzurro, rendendolo un punto focale.
   «Davvero sofisticato», le aveva fatto l'OK con le dita, prendendola in giro. Lei ormai non ne poteva più dei suoi commenti, dopo tre anni si limitava semplicemente a rovesciare gli occhi al cielo.

   Il Musain era un piccolo café posizionato nello stretto angolo di un bivio e occupava il primo e il secondo piano di una bassa palazzina di mattoni rossi.
   Sopra l'insegna scalcinata si allungava il balconcino del secondo piano, dove una coppia di clienti stava fumando una sigaretta, e dalla porta-finestra alle loro spalle si intravedeva un piano bar.
Nessun tavolino all'esterno e nessuna decorazione sui marciapiedi. Un locale senza pretese, insomma, e assolutamente non interessato alle apparenze.

  Grantaire si domandò perché le persone come lui sembravano ambire a qualcosa di più, rispetto ai ricchi figli di papà di cui era circondato, che invece adoravano le bettole diroccate come quella.
Li faceva sentire anticonformisti, come se al privilegio di essere ricchi volessero aggiungere quello di far finta di non esserlo.
   Non fece comunque in tempo a ragionarci su, perché 'Ponine lo trascinò dentro, costringendolo a buttare la sigaretta prima che l'avesse finita.

   Come si poteva presagire dall'esterno, l'interno era un ambiente molto stretto e pieno fino all'orlo. Un'accozzaglia di stili diversi ben lontana dal concetto di "armonioso".
Si passava da divanetti barocchi in velluto rosso sgargiante e rifiniture dorate, a sedie di plastica il più minimaliste possibili.
   Sembrava un locale costruito lungo un corridoio: da un lato le pareti erano occupate da immense librerie, dall'altro dal lunghissimo bancone del bar, e al centro, sparsi ovunque e senza lasciare un vero e proprio passaggio: tavoli, tavolini, sgabelli e sedie.

   Sul fondo della sala si stagliò, all'improvviso, una figura diversa da tutte le altre. Un ragazzo forse di qualche anno più grande di lui, alto e perfettamente ordinato.
Gli occhiali da bibliotecario elegantemente posati sul ponte del naso drittissimo, i capelli castano chiaro laccati all'indietro, e la camicia ben abbottonata e infilata nei pantaloni. Addirittura il libro aperto che teneva in mano sembrava obbedire a un qualche incantesimo, poiché quello gesticolava liberamente senza che una pagina si sfogliasse da sola.
   Grantaire cercò di mettere a fuoco le sue parole nel brusio incessante del locale; stava cantando qualcosa:

«Si César m'avait donné
La glorie et la guerre,
Et qu'il me fallût quitter
L'amour de ma mère,
Je dirais au grand César:
Reprends ton scepter et ton char,
J'aime mieux ma mère,
J'aime mieux ma mère.

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