Il villaggio in fermento

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Ricordo poco di quegli anni, solo che negli ultimi mesi faceva davvero freddo. Era un freddo che sembrava entrarti nelle ossa e non darti tregua, non impor- tava quanto fossi coperto, ti avrebbe aggredito comunque. Non mi soffermerei a raccontare in quale anno preciso si svolsero gli eventi; sono passati dei secoli e non penso abbia davvero importanza parlarne. Vivevo in un piccolo paese a ridosso delle colline, ero nata lì, così come lo erano i miei genitori e i nonni prima di loro. Vivevamo di poco: mio padre era panettiere, forse l'unico del posto, ed era benvoluto da tutti. Non avevamo un vero e proprio cognome, visto il nostro rango sociale, ma la gente del posto aveva preso a chiamare mio padre "Bianco" a causa della farina che colorava i suoi vestiti. Da quel giorno egli prese quell'aggettivo e lo trasformò in un nome, un nome con cui tutti gli abitanti del nostro paese presero a chiamarci: per loro noi diventammo "i Bianchi".
Ogni persona, come in un paese degno di tale nome, conosceva a menadito ogni altra e, di conseguenza, ogni tipo di affare che riguardava le famiglie. Cosa si sapeva della mia? Non molto, in realtà, o perlomeno non molto che dia da parlare. Almeno fino a quando da bambina non divenni adolescente. Lì iniziarono i problemi.
Ricordo che la gente che mi circondava ogni giorno era così chiusa mentalmente da non accettare il fatto che studiassi, ovviamente per conto mio, la medicina e la natura in ogni sua forma, compresa la volta celeste. A loro non andava giù che il mio desiderio fosse quello di sapere, di conoscere il più possi- bile riguardo ogni argomento. Per questo non facevo altro che leggere e isolarmi dal mondo che conoscevo, da loro. Mio padre continuava a dire che avevo preso da mia madre questa maledizione e lei, di tutta risposta, rigettava la colpa su suo marito.
«Tua figlia non sarebbe nata così, se tu fossi stata più attenta durante la gravidanza!»
«La colpa è solo la tua, uomo, è la maledizione della tua famiglia che ci perseguita. Anche tua madre dice lo stesso!»
E così via, ogni volta che mettevo in tavola un discorso un po' più profondo di quanto una donna poteva permettersi di fare a quei tempi.
«Sai», continuava a dirmi mia madre quasi come se fosse una confessione, «le donne sono state fatte da dio per procreare e prendersi cura della famiglia. Pensare... quella è roba da uomini! Se tu continui così rimarrai sola, mia cara, senza marito, senza figli. Il che sarebbe un fallimento e la più grande delusione che tu possa mai avere.»
Queste erano le sue ragioni e, appena cercavo di controbattere, mi voltava le spalle, ignorandomi completamente.
Quando arrivai a venti anni, poi, tutto il paese iniziò a parlare di me: ero troppo vecchia per gli uomini, per fare figli e gestire una famiglia. Le poche amiche che avevo erano già madri di tre o quattro pargoli; a me non interessava, io volevo di più e, a volte, sognavo come poteva essere vivere al di fuori di quello che, ormai per me, era uno squallido paese. Come potevano essere le grandi città? Come venivano trattate lì le donne "diverse", quelle come me?
Iniziai a pormi queste domande ogni giorno, mentre attraversavo le vie del paese, per andare ad aiutare mio padre a vendere il pane che produceva.
Sembrava essere una giornata come tutte le altre: il cielo era nuvoloso e il vento che mi accarezzava era gelido: mi ricordava lo stufato che mamma pre- parava sempre d'inverno.
C'erano le patate ed era il mio preferito. Tutto sembrava normale, almeno fino a quando non arrivai nella piazza del mercato, quella dove mio padre aveva il suo spazio di vendita: le persone erano radunate in gruppo e sembravano es- serci proprio tutti, dai più anziani ai giovanissimi. Ma cosa stavano facendo? Mi avvicinai e cercai di farmi strada in mezzo alla marmaglia, quando finalmente ne emersi vidi ciò per cui tutti gli altri si erano radunati con tanto fervore. Era un uomo, o almeno sembrava esserlo, vestito bene e dall'aspetto curato; diceva di trovarsi lì per conto di Alfonso De Lihory, mi sembrò strano non conoscere la persona da lui nominata, visto che avevo letto riguardo le monarchie e ogni sottoposto che avevano nel nostro paese. Quel nome continuava a non sov- venirmi. In quanto a lui, non disse il suo, non subito almeno. Inizialmente si presentò solo come liberatore della città.
Dai ratti? Pensai.
Con il senno di poi, avrei fatto bene ad andarmene quella stessa mattina. C'erano troppe cose strane, anche mio padre era come ipnotizzato dalle sue
parole; cercai di portarlo via in ogni modo, ma niente, lui era inamovibile. Fu allora che l'uomo al centro della piazza mi percepì. Non disse niente, i suoi occhi si posarono semplicemente su di me, scrutandomi. Io lo guardai nuovamente e notai che sembrava essere insolitamente anziano per la normale aspettativa di vita, poteva raggiungere tranquillamente i sessanta, anche settant'anni, non aveva capelli né sopracciglia, nessuna traccia di peluria o barba di nessun tipo e i suoi occhi erano stranamente scuri. Ci fu un momento di silenzio, poi tornò a parlare al vasto pubblico che si era creato e io continuai a cercare di smuovere mio padre da quella trappola mentale.
A cena, la sera stessa, lo stufato dolce era accompagnato da discorsi amari: mio padre stava riferendo ogni singola parola pronunciata da quell'uomo, con- tinuava ad asserire che avrebbe potuto aiutarci, far diventare il nostro paese una grande città, una capitale del commercio.
Stufa di sentire quelle parole, sbottai, battendo i pugni sul tavolo. «Possibile che siate così ottusi?»
Crollò il silenzio. Mia madre rimase scioccata dal mio gesto e dalle parole
che proferii.
«Tutta la città è d'accordo con quello che dice il nostro salvatore, perché tu
no? Perché non puoi essere normale?»
Mio padre iniziò ad alzare la voce e la sua espressione si rabbuiò. «Devi stare
attenta, Clara. Qui la gente inizia a pensare che tu sia una strega...»
Sgranai gli occhi alle sue parole.
«Una strega? Perché dovrebbero mai crederlo?»
Mia madre s'intromise nella conversazione e, quasi piangendo, domandò:
«Perché non ti comporti come una donna normale?»
«Madre! Ma cosa dici? Solo perché voglio conoscere meglio il mondo non
sarei una donna normale? Perché non voglio quello che hanno tutti, ma forse qualcosa di più?»
La donna scoppiò in lacrime e mio padre si alzò di scatto dalla sedia.
«Ho capito la situazione.»
Mi alzai e andai a prendere il mio scialle, che solitamente mettevo per uscire,
in inverno. «Vado a farmi un giro.»
Nessuno di loro disse una parola. Mi lasciarono uscire da sola, di sera, in un
momento in cui buona parte della città pensava fossi una strega. Ho sempre pensato che i miei non avrebbero dovuto conoscersi né tantomeno decidere di diventare genitori.

Velhot  Il Maestro delle animeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora