Il piccolo pettirosso

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La notte era stato davvero difficile prendere sonno: continuavo a ripensare a quell'uomo, Sariel, a come fosse posato e distinto, diversamente dagli altri che conoscevo. Di come sembrasse sapere ogni cosa: mi chiedevo se venisse dal nord del mondo oppure dal sud. Sicuramente aveva visto molto nella sua vita e avrebbe avuto diverse storie da narrare, se solo qualcuno glielo avesse domandato. Era forse l'unica persona all'interno del mio paese che conoscesse più di quanto avessi studiato io. Questo mi affascinava a tal punto da togliermi il sonno. Avrei voluto conoscerlo meglio, anche se c'era qualcosa in lui che mi teneva lontana.
La mattina seguente sembrava tutto surreale. I tratti di quell'uomo, i suoi denti, gli occhi. Continuavo a domandarmi l'origine del suo strano aspetto, ma il sapere che avevo accumulato non era sufficiente a fornirmi una risposta. Ero in bilico, per la prima vera volta, sulle mie idee.
Mi vestii in fretta, indossando gli stessi abiti della sera precedente, e corsi fuori casa, in direzione della piazza. Anche quel giorno c'erano le nuvole, solitamente l'inverno era così, sempre scuro e piovoso, ma non nevicava. A quel tempo non avevo mai visto la neve, ma la mia parte infantile immaginava come potesse essere divertente passare le giornate a giocarci: a creare strane sculture con essa e sdraiarcisi sopra, sentendo il freddo penetrare lentamente nelle ossa. Sarebbe stato bello anche solamente ammirarla: rimanere in silenzio a guardare i leggeri fiocchi scendere e depositarsi silenziosamente sulla terra fredda.
Dopo aver abbandonato le mie fantasie ed essere tornata con i piedi a terra, raggiunsi mio padre e mi scusai per il comportamento della sera precedente, non facendo però alcuna menzione dell'uomo che mi aveva minacciata, tantomeno di Sariel e di come avessi avuto una breve conversazione con lui. Conoscendo ogni persona del posto, non mi sembrava giusto intaccare il lavoro di mio padre incattivendolo verso i suoi clienti. Lui sembrò accettare le mie scuse, ma aveva un'espressione davvero triste, dovuta forse alla delusione? Il fatto che fossi scappata da casa per cercare un po' di pace lo aveva infastidito? Non c'erano domande che non mi feci, continuai per tutta la mattinata a chiedermi quale fosse il motivo della sua presunta tristezza.
Mi sentii ancora una volta una figlia deludente e questo sentimento non sembrava abbandonarmi mai.
Lavorai duramente e riuscimmo a incassare parecchio, ma la cosa più importante fu che la gente non sembrava essere a conoscenza degli avvenimenti della sera precedente.
L'uomo che lanciò su di me quelle pesanti accuse non aveva fatto parola con nessuno dell'accaduto. Forse era opera di Sariel, magari era riuscito a dissuaderlo dallo spargere ulteriormente quella voce in giro, visto la considerazione già bassa che avevano di me i miei compaesani. Era come se non fosse mai successo niente e, se fosse stato merito suo, gli sarei stata davvero grata.
Nel pomeriggio mio padre tornò a casa e io rimasi a sistemare le ultime cose prima di raggiungerlo. Ero quasi sola, nella piazza. Per quell'orario la gente solitamente era a casa a riposare dalla mattinata passata a lavoro ed era raro vedere alcuna anima in giro, eccezion fatta per qualche anziano che si godeva una chiacchierata di gruppo all'aria aperta.
«Quindi è qui che lavori.»
Alzai lo sguardo, mentre impacchettavo le ultime cose. Sariel era davanti a me.
Sobbalzai. Mi colse di sorpresa e sgranai gli occhi. Davvero non mi aspettavo di potermelo trovare davanti in quell'occasione. Aveva chiesto di me in giro? O magari l'uomo della notte scorsa gli aveva riferito chi fossi e dove potesse trovarmi?
Scossi la testa e un lieve sorriso imbarazzato comparve sulle mie labbra, finii di chiudere gli ultimi sacchi e tornai a guardare l'uomo che era in piedi davanti a me e teneva le mani dietro la schiena. Sembrava stesse studiando attentamente il mio lavoro, cercando di capire cosa stessi facendo, quale fosse la mia mansione. Non sapevo bene che sensazioni stessi provando, trovandomi nuovamente al suo cospetto.
«Sì... mio padre è fornaio e io provo a dare una mano.»
Iniziai a camminare e lui fece lo stesso, seguendomi lentamente. Continuai a parlare, guardando l'acciottolato che componeva la strada della piazza.
«Nessuno ha fatto parola dell'accaduto, stamattina, in più l'uomo che mi ha minacciata, accusata, il signor Mariani, non è venuto a prendere il pane.»
Sariel si limitò a rimanere in silenzio, avvicinandosi sempre di più. Prese ciò che tenevo in braccio, probabilmente voleva aiutarmi a trasportare il peso, visto che la strada era tutta in salita. Sembrava non fare il minimo sforzo per portare quei sacchi e, vista la sua presunta età, questa cosa era molto strana, più dei suoi tratti particolari.
«Avete solo parlato, ieri sera, non è vero?» domandai, appena lui mi liberò del pesante fardello che stavo portando.
«Ora non è un problema. Non ti darà più fastidio.»
Lo guardai sospettosa, riprendendo la camminata. Le sue parole erano fredde, come se fossero dosate, calcolate. Come se quello che stesse dicendo fosse stato premeditato già da tempo. La sensazione che provavo nello stargli vicino era particolare, come se emanasse un'aura terrificante, ma allo stesso tempo sicura e consolatoria.
Lo condussi fino a dove solitamente mettevamo i rimasugli della giornata, insieme ai pezzi di legno che sostenevano il banco del pane.
«Grazie.»
Spostai i lunghi capelli e li raccolsi in una grande e disordinata coda: sebbene fossero lisci, le giornate d'inverno tendevano a incresparli. Guardai l'uomo negli occhi, notando che di giorno il colore scuro si poteva distinguere molto di più.
«Posso domandare perché mi stai aiutando?» chiesi quasi innocentemente, infine, sbattendo ripetutamente le palpebre.
Un sorriso comparve sulle sue labbra.
«È pura cortesia. Non sono mai stati cortesi con te?»
Alzai e riabbassai frettolosamente le spalle. «Solitamente mi evitano,
tranne quando vogliono addossarmi le sventure del paese. Allora lì mi cercano per attaccarmi. Purtroppo, la mia vita non è contornata da persone cortesi.»
«È un vero peccato che la gente nei paesi sia diventata sempre più
rozza e maleducata. In questi tempi bui l'ignoranza dilaga come un sudicio fiume che esonda, rompendo i suoi argini» pronunciò le ultime parole con un'espressione disgustata, piena di risentimento verso quelli che, secondo il mio parere, riteneva persone inferiori. «In questi luoghi nessuno ha voglia di elevarsi anche solo per riuscire a esprimersi meglio o, come te, per avere un vita migliore.»
Non riuscii a sostenere lo sguardo e abbassai la testa; era quello ciò che desideravo di più. Quando parlavo di uscire dal mio paese e visitare la grande città, gli occhi mi si riempivano di lacrime, dettate dall'emozione. Non volevo che lui le vedesse.
«Non era solo un presentimento, sei davvero diversa dai tuoi compaesani. La tua mente è aperta, tu riesci a vedere oltre il tangibile.» Le sue parole mi distrassero, facendo sfumare il sogno a occhi aperti che, di tanto in tanto, mi trovavo a fare fantasticando sulle grandi città e su quali opportunità avrebbero potuto offrirmi. Mi asciugai frettolosamente con il dorso della mano e, quando i nostri sguardi s'incontrarono ancora, lui avanzò una proposta: «Verresti a prendere un tè a casa mia? Perdona la mia sfacciataggine, ma vorrei parlare con una persona al mio stesso livello. Magari riesco anche a insegnarti
qualcosa di nuovo.»
Rimasi esterrefatta, sbalordita dal suo invito. Avrei voluto accettare
la proposta senza pensarci su, ma qualcosa dentro di me frenava quell'impulso. Non sapevo se potevo fidarmi, nonostante tutti gli abitanti del paese pendessero dalle sue labbra, non sapevo se fosse il caso di avventurarmi per questa tortuosa strada, di prendere una decisione più che affrettata. Mi fermai un attimo a pensare: ogni volta che i miei compaesani, persone che conoscevo da una vita, mi avevano ferita, derisa, scacciata, dopo avermi invitato loro stessi a cene, ricevimenti e banchetti in piazza, feste e sagre di paese. Gli inviti che avevo accettato erano tutti dettati dall'odio, dalla cattiveria, quindi perché non tentare con lui? Non era lì per infangare il mio nome, altrimenti avrebbe parlato a tutti degli avvenimenti accaduti la sera precedente, scatenando ancora di più quell'odio immotivato che molti provavano. Decisi di fare quel salto nel vuoto che tanto spaventava ogni persona. Che tanto spaventava anche me.
«Certamente.»
Il suo sorriso si allargò e mi porse il dorso della mano, così che io potessi poggiarci la mia sopra.
Il contatto con la sua ruvida pelle fu stranamente interessante, nonostante le sue fattezze fossero inquietanti: le lunghe e appuntite unghie erano spettrali, così come la temperatura fredda che aveva la grande e scheletrica mano.
Credetti fosse normale, in inverno, sentire freddo.
Fu una silenziosa e lenta camminata: non pensavo potesse avere una casa in paese, ma forse l'aveva acquistata prima di venire, sapendo che si sarebbe trattenuto a lungo.
«Posso chiedere ancora perché sei qui?» domandai sfacciatamente, rompendo il pesante silenzio accompagnato dalle folate di gelido vento che scuotevano i nostri corpi.
«Mi sembra di averlo già detto. Sono qui per liberarli.»
La sua freddezza e compostezza non lo abbandonarono per un attimo, tanto che rispose usando parole semplici, ma efficaci.
«Questa è una città tranquilla, non è mai successo niente di eclatante, oltre l'avvenimento di ieri sera. Non capisco cosa intendi con "liberare".»
La sua espressione non mutò. Era molto serio.
«Lo scoprirai quando sarà il momento.»
Sospirai, cercando di non farmi sentire da lui, muovendo
lentamente la mia mano sopra la sua.
I suoi scopi mi erano oscuri, non capivo da cosa dovesse liberare la
città e pensai nuovamente parlasse dei ratti, dell'unica piaga che affliggeva il nostro piccolo paese.
Per il resto della passeggiata mi limitai a tenere il silenzio, osservando sporadicamente la sua mano mostruosamente bianca e fredda. Il sottile strato di pelle che la ricopriva sembrava potersi rompere, dilaniare, da un momento all'altro. I tendini, le vene e le ossa erano particolarmente esposti, così come si addice agli arti degli anziani. Sariel però sembrava essere di tutto, tranne che uno di loro.
Dopo non molto tempo arrivammo davanti a quella che ero certa fosse una casa abbandonata da anni. Sapevo che lì, un tempo, viveva una donna anziana, sola e quasi morente. Questo aggiungeva solo altre domande.
Sariel mi lasciò la mano per aprire la porta che conduceva alle lunghe scale per salire al piano superiore, dove la casa era costruita. Era solito nelle abitazioni sulle colline, creare l'interno totalmente rialzato, in modo da accompagnare la naturale curva del terreno.
Salii le scale mentre l'umidità pervadeva il mio corpo, la potevo sentire entrare fin dentro le ossa. Rabbrividii.
Al contrario di quello che pensavo, la casa era in ordine, anche se uno strano odore permeava le pareti.
«Vuoi darmi il soprabito?»
Annuii e dopo avergli passato il mio scialle lo vidi sparire per qualche secondo per poi tornare, facendomi cenno di seguirlo.
Mi portò in un grande salone con un divano e due poltrone nere di un materiale che sembrava pelle, l'acqua calda già pronta nella teiera sul tavolino basso davanti agli eleganti complementi d'arredo che componevano la sala.
La vista delle tazze minò ogni sicurezza che avevo: com'era possibile che fosse già pronto l'occorrente per servire il tè se ancora non me lo aveva chiesto? Mi sedetti e iniziai a guardarlo mentre versava la bevanda nella mia tazza.
Avevo gli occhi sbarrati e non staccai lo sguardo da lui neanche per un secondo; l'unica cosa che mi faceva interrompere il contatto visivo era l'impellente necessità di sbattere le palpebre.
«Come facevi a sapere che avrei accettato?»
Un velo di paura si fece strada nella mia voce, confluendo nelle parole che mi uscirono dalla bocca.
«Conosco un bel po' di cose e studio la natura umana da qualche tempo, quindi penso di saper riconoscere molto bene alcune situazioni.»
Mi sorrise alzando un solo angolo della bocca, alla fine della frase, e si sedette davanti a me. La sua tazza era vuota. Titubai nel prendere in mano la raffinata ciotola, ma quando toccai la porcellana mi accorsi che non era bollente o calda, ma tiepida; quindi, doveva essere lì da un po'. Forse non aveva predetto la mia venuta, ma era solo stato previdente. In fondo, buttare via dell'infuso non sarebbe stato un grande spreco.
«Allora, Clara, parlarmi di te. Sei la figlia del fornaio del paese, dovresti vivere una vita agiata», accavallò le gambe e incrociò le mani, lasciando le dita alzate per non toccarsi la pelle con le unghie. «Agiata? No. Non siamo poveri, certo, ma neanche ricchi.»
«Sei la sua unica figlia?»
Non staccava gli occhi da me neanche per un secondo.
«La sua unica maledizione, sì. I miei non si sono mai amati, si sono
sposati solo perché promessi e hanno fatto un'unica figlia, talmente non si piacevano. Non ho mai voluto il loro stesso destino», mossi la testa, puntando lo sguardo fuori dalla finestra vicina; c'erano delle ragnatele su tutto il cornicione e la pesante tenda rossa impediva di vedere al di fuori. Sariel non doveva amare avvicinarsi alle imposte e tantomeno ammirare il paesaggio esterno. Dalla tazza con la bevanda scura non usciva fumo, eppure il poco tepore mi riscaldava le mani. Faceva davvero freddo in quella casa.
«A volte desidero sparire, o non essere mai nata.»
Spostai nuovamente lo sguardo e i nostri occhi s'incontrarono ancora.
«Sei promessa a qualcuno?» la sua espressione era seria, come se quella domanda fosse fonte di preoccupazione. Una preoccupazione che non capivo.
«Sono troppo vecchia, ormai, per essere promessa. Dovrei già avere dei bambini, alla mia età. In più, nessuno dei miei compaesani vuole che uno dei loro figli maledica la sua stirpe intrecciandola con me», sospirai rumorosamente.
«Se i tuoi genitori acconsentissero, ti sposerei io.»
Sorrisi, colta dal totale imbarazzo e lui continuò: «Sei speciale, ma qui nessuno lo capisce. Perché non vai in una delle grandi città?»
«Ho paura. Non saprei dove andare e cosa fare. Sono tempi pericolosi per una ragazza che vaga da sola.»
«Concordo.»
Ci furono minuti di silenzio in cui ripensai alla sua domanda, al motivo per il quale mi avesse chiesto se fossi promessa a qualcuno. Non vedevo ragione del perché potessi suscitare il suo interesse in quel modo, vista la sua età e l'esperienza accumulata, sicuramente molte donne più mature e istruite di me smaniavano per averlo. Al contrario delle donne, se un uomo non era sposato, specialmente se benestante e con una solida base di studi alle spalle, non attirava attenzioni indiscrete e voci riguardanti la stregoneria. Tutte le donne, anche quelle già impegnate, avrebbero fatto di tutto solo per ricevere un saluto di cui, poi, non si sarebbero accontentate.
Finii di bere il mio tè e posai delicatamente la tazza sul suo piattino, cercando di non fare il minimo rumore, mentre lui continuava a osservarmi in silenzio. Mi schiarii la voce, il troppo zucchero nella bevanda aveva creato come un blocco nella mia gola, o forse erano state le parole dell'uomo a farlo.
«Grazie per l'invito, Sariel. Grazie di pensare che sia una persona speciale, purtroppo credo che marcirò qui. Se sono fortunata la mia vita durerà altri trenta, quarant'anni e morirò prima del previsto. Magari finalmente avrò la pace a cui anelo.»
«Tu meriti molto di più.»
Mi alzai e mi guardai intorno, ignorando le sue parole. Sebbene fossero dolci erano comunque pronunciate dalla bocca di uno sconosciuto e a me non piaceva l'idea di essere presa in giro.
«Si è fatto tardi. Mia madre si preoccuperà se non mi vedrà rientrare a breve.» Lui fece lo stesso movimento e sparì di nuovo, per portarmi il soprabito.
«Grazie ancora per l'ospitalità. Il tè era davvero buono», gli sorrisi freddamente e lui ricambiò con altrettanto gelo in volto.
Non aggiungendo altre parole mi coprii con lo scialle, trovando conforto nella sua lana calda e nelle maglie strette, ben lavorate da mani esperte.
Lasciai quella dimora con molti interrogativi e una strana sensazione che mi attanagliava lo stomaco. Potevo sentirlo, quel pericolo, e forse sarebbe stato saggio evitarlo, passare oltre, ignorare le sue parole maliarde e concentrarmi sulla mia vita che, come avevo detto anche a lui, speravo sarebbe finita prima del previsto. Ma c'era qualcosa che continuava a premermi, a spingermi verso l'uomo, a cercarlo e pensarci ogni giorno. Dovevo capire cosa fosse quel sentimento e perché quando eravamo insieme esplodesse in sicurezza, confidenza.
Una volta in strada notai che la flebile luce del sole, coperta da nuvole nere e minacciose, stava pian piano morendo per far spazio alla volta scura della notte. Le temperature erano crollate di colpo e non c'era più lo stesso flebile tepore che si poteva avvertire durante il pomeriggio. Camminai per la strada guardando a terra, ripensando alla nostra conversazione. Sapeva molte più cose sul mio conto, ora, ma io cosa sapevo di lui? Niente, tranne quello che pensava volessi sentirmi dire. Se per lui ero così intelligente, allora perché continuava a mentirmi spudoratamente? Aveva sicuramente qualcosa da nascondere.
Un verso animalesco infranse il flusso dei miei pensieri. Era lungo e molto simile a quello che avrebbe potuto fare una creatura intenta a imitare le urla di un essere umano. Mi bloccai. Veniva da un vicolo vicino e la curiosità era troppa per non andare a vedere di che tipo di animale si trattasse. Mai nella vita avevo sentito tale suono, mai mi era capitato di vedere un animale della foresta che vagasse in città: pensai potesse essere un cinghiale, oppure un cervo. Sapevo che i loro versi erano molto lugubri, ma affascinanti, come quello che avevo appena udito. Mi avvicinai di soppiatto e vidi una sagoma scura, accucciata a terra. Sembrava un essere antropomorfo e indossava dei vestiti. Rimasi a guardarlo per qualche secondo, cercando di cogliere ogni dettaglio, con la poca luce rimasta che illuminava il vicolo. Aveva tutto l'aspetto di un uomo intento a uccidere una bestia, ormai ne ero quasi sicura, così richiamai la sua attenzione.
«Di che animale si tratta?»
L'uomo si alzò e si girò verso di me. Era il signor Mariani. «Buonasera, signore, non ha un bell'aspetto.»
Lui rimase fermo, non rispose, emise solo un leggero ringhio, molto
simile a quello che avevo sentito fare a Sariel.
«Signore?», iniziai ad allontanarmi quando vidi che, per terra, in una
posa terribilmente inquietante c'era una delle mie amiche di vecchia data. Vanessa. Sembrava non respirare, ma non potevo dirlo da così lontano e in penombra.
Provai a chiamarla più volte, ma non si mosse. Forse i miei timori erano fondati. L'uomo si avvicinava lentamente verso di me e non sembrava avere più lo stesso aspetto del giorno precedente: era pallido e i suoi occhi erano scuri. Indietreggiai sempre di più, sempre più velocemente, continuando a chiamare il nome della mia amica talmente tanto da rimanere quasi senza fiato. Non potevo accettare che la sua vita fosse finita lì, in un vicolo del nostro paese per chissà quale motivo. Aveva forse provocato l'uomo in qualche modo? Si era fatta odiare anche lei, come me, da quel bigotto? Le domande erano molte e nessuna delle risposte che potevo darmi mi aiutava a razionalizzare quella situazione.
Quando fui uscita lentamente dal vicolo iniziai a correre; non potevo permettere che la sua morte passasse impunita, ma non potevo neanche dire a nessuno quello che avevo visto. Il signor Mariani, seppur scontroso e per niente affabile, era benvisto dall'intero paese: era un uomo considerato tutto d'un pezzo e la sua fede era incrollabile, così come la sua caccia imperterrita a tutto ciò che fosse eretico e legato alla stregoneria. Lasciai ogni razionalità in quel vicolo, quella sera, e corsi a perdifiato verso casa mentre le lacrime scorrevano abbondanti sul mio volto.
Non avrei potuto parlarne nemmeno con i miei genitori. Non avrebbero creduto a una parola di quella storia e, forse, sarebbero stati loro stessi a darmi la colpa e additarmi come strega e assassina. Avrebbero potuto arrestarmi e impiccarmi o bruciarmi, addirittura, se avessi aperto la bocca, ma sarebbe stato difficile fingere di non aver visto niente. Fingere che tutto fosse stato normale. Non erano cose che accadevano nel nostro paese, solitamente la gente moriva di vecchiaia o di malattia, ma nessuno era mai stato assassinato. Non c'erano casi del genere e tantomeno compiuti da una persona come lui. Lui, che la sera prima mi aveva accusato di essere una strega, il giorno seguente aveva spezzato la vita di una povera fanciulla indifesa sotto l'effetto di chissà quale malattia o droga.
Più mi allontanavo da quel posto, dal corpo della povera Vanessa e più credevo di essermi immaginata tutto perché, semplicemente, non poteva essere reale. Tornata a casa giustificai il mio ritardo dicendo che mi ero fermata in libreria. Una cosa che mi si addiceva e su cui i miei genitori non avrebbero fatto domande.
Mia madre notò che avevo pianto e, quando mi chiese il motivo, le risposi che avevo visto un piccolo pettirosso morente in un vicolo, come a nessuno sembrasse importare della piccola bestiola in difficoltà, inventai che rimasi con lui tutto il tempo, prima che spirasse, che compisse il suo ultimo volo, per regalargli una degna sepoltura.
«Sei troppo sensibile», rispose lei, «non puoi salvare tutti, Clara.» Aveva ragione. Non avrei potuto salvare Vanessa neanche volendo.
Mangiammo insieme come al solito e non ci fu momento durante la cena in cui io non ripensai a lei, ai suoi occhi colmi di terrore. L'avevo visto, percepito, sentito crescere dentro di me. Continuavo a domandarmi cosa fosse successo e perché lei si trovasse lì insieme a quell'uomo, ma soprattutto: che cosa aveva il signor Mariani? Per quale motivo somigliava a una bestia, più che a un umano? Che lo avesse morso un cane con la rabbia e i sintomi si fossero palesati solo quel giorno? Non capivo e non c'era cosa che m'infastidisse di più del pormi queste domande. Di cercare di afferrare risposte che, però, svanivano tra le mie dita come fumo.
Iniziai a sparecchiare quando mio padre uscì di casa per andare a lavoro a creare quello che tutto il paese definiva come il miglior pane mai assaggiato, forse perché non ne avevano mai mangiato dell'altro?
Mia madre non mi guardava mai. I nostri sguardi si incrociavano molto raramente e ancora più raramente intraprendevamo una conversazione. Mi sembrava molto triste, annoiata e affranta. Ogni tanto pensavo che, magari, una volta poteva essere stata come me: piena di sogni e aspettative distrutti successivamente dai miei nonni, quando l'accoppiarono a mio padre. Povera donna, a volte mi faceva pena.
Qualcuno bussò alla porta, io e mia madre sobbalzammo. In quel momento i nostri sguardi s'incrociarono, dopo tanto tempo. Lei si asciugò le mani e andò ad aprire.
«Signore, dovete venire entrambe in piazza, è stata convocata un'assemblea speciale.»
Mia madre rimase spiazzata. Io no. Sapevo si sarebbe parlato di Vanessa.
Entrambe ci coprimmo bene per affrontare il freddo della sera e ci recammo in piazza, dove sembrava esserci tutta la città, Sariel compreso.
Il capostipite della famiglia più influente e ricca, gli Inisi, iniziò a parlare di omicidi e sparizioni di persone, di streghe e stregoni. Diceva che c'era qualcuno che compiva sacrifici in onore del demonio. Parlò della morte di Vanessa e io ero terrorizzata, mia madre scioccata.
In tutta quella confusione, in mezzo a quel fracasso di persone disperate che urlavano, proponevano di indagare a fondo e, ancora, che avrebbero voluto esaminare casa per casa pur di addossare la colpa a qualcuno, quella sera non riuscivo a staccare gli occhi da Sariel e lui, di tanto in tanto, ricambiava lo sguardo. Aveva capito che ero terrorizzata.

Velhot  Il Maestro delle animeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora