Il giorno...

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Ciao sono una bambina di 11 anni di origine ebraica, ho un fratellino più piccolo di me e si chiama Filippo, ho una madre dolce e un padre militare.

Andavo a scuola regolarmente, quando una mattina bussarono alla porta di casa. Mamma aprì e iniziò a piangere mentre preparava le valigie. Uscì dalla cameretta e chiesi a mamma perché piangeva e perché c'erano quei soldati ad aspettarci. Mamma iniziò a piangere ancora di più e da quando papà era andato in guerra aveva spento il suo sorriso. Mamma disse vicino a me di portare Filippo giù ma io non l'ascoltai e rinchiusi a mio fratello nell'armadio dove era nascosto dentro la parete. Gli diedi del pane e dell'acqua ma sapevo che non abbastano per quando ritornerò. Dissi a mamma che avevo rinchiuso Filippo nell'armadio per salvarlo ma mamma disse di andarlo a liberare, ma fu troppo tardi. Ormai i soldati ci avevano sbattute nel vagone per portarci in quel posto chiamato "Auschwitz". Mamma ne sapeva qualcosa ma non aveva proprio intenzione di dirmelo. Ero un po' spaventata e vedevo gli occhi tristi e un sorriso spento delle persone innocenti. Tutti gli ebrei venivano chiamati "ebrei assassini" ma non sapevo il perché. Il viaggio duró per circa cinque giorni e sentivo la mancanza di Filippo e mi ero pentita di averlo rinchiuso là dentro. Vedevo mia madre disperarsi sempre di più e la consolai facendole scappare un piccolo sorriso. Arrivati ci fecero scendere dai vagoni dandoci a ognuno di noi delle spinte quasi a farci cadere. Stavamo camminando sempre di più e la stanchezza, la sete e la fame si fecero sentire. Stavamo entrando in quel campo quando notai sul cancello una scritta: "Arbeit match frei" Il lavoro rende liberi, così pensai che ci facevano rimanere solamente un giorno di intenso lavoro e ci lasciavano liberi, così potevo liberare mio fratello da quella parete, ma non fu così.

La chiave di SaraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora