CAPITOLO 03 - Vittoria interessante

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Ho battuto Grace, l’ho battuta nella gara di piscina: fare due vasche in un minuto. Io ci ho impiegato quasi due minuti, lei due pieni. Mi sento una vincitrice, anche se ho pareggiato con Rachel. Siamo arrivate nello stesso momento, e questo mi fa davvero imbestialire. Non lascerò mai questo posto, questo sport. Ma non perché mi piaccia tanto, ma perché non voglio lasciarle il mio posto, anzi: il mio trono. Il mio primo posto, che mi fa sentire una regina. Sono molto competitiva, ma anche molto umile, almeno, non con lei. Lei mi ha sempre trattata diversamente da tutte. Nel nostro gruppo siamo praticamente tutte femmine, tranne il nuovo arrivato e qualche adolescente magrolino che vuole superare decentemente la sua pubertà disastrosa. Ma io no, io sono già maturata. Rachel continua ogni volta ad accennare un minimo di disprezzo facendo come una vittima sacrificale. Quando, per esempio, tre anni fa mi sono rotta il braccio, lei diceva a tutti la stessa frase impertinente: “io le avevo detto di allenarsi un po’ di meno, però, in fondo, la capisco perfettamente. So che lei ha paura di non riuscirmi a battere, e mi dispiace che lei sia da secondo posto, ma di vincitrice ce ne può essere solo una, e, mi dispiace per lei, ma sono io la prima”. Ogni volta che la sento parlare mi viene da strozzarla, o prenderla e legarla come fosse un salume pronto per il macello. Ma mia madre mi ha insegnato la buona educazione, che mia nonna ha insegnato a lei. Megan Lewis mi ha insegnato come parlare da nobile, e ciò mi fa sentire davvero superiore.
Fra qualche giorno ci sarà una gara regionale qui, nella mia città, ed io ho intenzione di partecipare. Purtroppo, sarò nello stesso gruppo della mia nemica, ma, come cita Diogene Il Cinico: “il miglior modo di vendicarsi dei propri nemici è diventare migliori di loro”, ed è proprio quello che farò.
Le mie priorità sono due: la prima sarà battere gli avversari; la seconda battere la Davis.
Io non odio tante persone, solo alcune, ad essere sincera: “bisognerebbe perdonare i propri nemici, ma non prima che li impicchino”, come diceva Heinrich Heine. Io non voglio che impicchino nessuno, a parte Rachel.
Non so, io, da quando sono piccola, ho sempre amato le citazioni: sono delle frasi, come dico io, “preconfezionate” per i disperati come me, e, in alcune occasioni, mi aiutano a prendere decisioni. Anche se non devo affidare tutta la mia vita ad una frase scribacchiata da qualche poeta storpio che è deceduto nella loro stanza buia e piena di polvere dei libri di filosofia. Lo so. Ma sono troppo testarda per ammetterlo a voce alta.
«Vedo che, giorno dopo giorno, stai migliorando, Jennette», sento una voce stridula sbattere contro le mie spalle: Rachel. Parlando del diavolo…
«Non ho bisogno di sfruttare al massimo le mie capacità, signorina Davis – la prendo in giro come solo mia madre ed io sappiamo fare – mi basta usare la metà dei miei sforzi per arrivare prima» cerco di pungerla con le mie parole “gentili” e “servizievoli”.
«Prova a mettere il tuo “talento”, se così possiamo chiamarlo, in vasca, così, finalmente, potrò sforzarmi per la prima volta.»
«Capisco la tua assurda collera verso di me, perché, per quanto tu ci provi, non riesci ad arrivare un secondo, dico solo un secondo, prima di me. E anche io sarei fuori dalla mia persona se non riuscissi a battere la mia nemica. Ma noi non rientriamo in questo caso, giusto?»
«Esatto, Jenny. Siamo amiche, non c’è bisogno di preoccuparsi.»
«Perfetto, come pensavo: allora potremmo allenarci a vicenda per migliorare le nostre abilità in acqua, e darci qualche consiglio da buone compagne di squadra, nonché amiche…»
«Certamente, a dopo Jennette.»
Rachel si allontana di corsa per prendere gli occhialini, e raggiunge la prima vasca con la stessa velocità, ma, per sua sfortuna, cade vicino al trampolino. Non sapevo se correre da lei, o ridere sotto i baffi come avrei voluto fare, ma il mio lato buono è più forte del rio. Corro verso di lei, che, mentre continuava a trattenere le urla dal dolore per sembrare più forte, io la raccoglievo da terra per portarla in infermeria.
«Jennette, scusa, davvero, mi dispiace, mi dispiace. Io non ti odio, ti invidio, ma…», non volevo crederci, ma faccio la superiore.
«Siamo arrivati», la poggio sul lettino e cerco un’infermiera, che, probabilmente, si è presa qualche giorno di malattia, perché il suo camice era appeso vicino al suo armadietto.
«Jenny, l’infermiera?»
«Non c’è.»
«Come non c’è?»
«Non c’è, ma, se vuoi, posso aiutarti io.»
Nella mia testa scorre la frase di Arthur Bloch: “per farvi un nemico, fategli un favore”; ma adesso devo pensare alla frase di Derek Shepherd: “oggi è una bellissima giornata per salvare vite”.
«Sei un medico?»
«No, ma vorrei diventarlo e, in più, seguendo da anni Grey’s anatomy, sono praticamente un chirurgo» cerco di ironizzare la situazione, che già si faceva tanto pesante.
Lei accenna un sorriso, per non darmi troppa soddisfazione, ma, dentro di me, so che l’ho fatta ridere.
«Anche tu appassionata di serie tv, Jenny?»
«Molto.»
«Anche io, e vorresti veramente diventare un medico?»
«Chirurgo cardio-toracico, per l’esattezza.»
«Wow, non ti fa impressione il sangue?»
«Prima, ora non più».
«Io mi impressionerei. Hai davvero coraggio a desiderare giornate piene di sangue.»
«Nel vero senso della parola.»
Sorridiamo insieme, sembra strano.
«Quindi? Posso vedere la gamba?»
«Prego…»
Le guardo la gamba e la noto esageratamente arrossata: «Prova a camminare.»
Mi chiede la mano porgendola davanti ai miei occhi, ed io la aiuto.
Nemmeno il tempo di poggiarlo per terra, che urla dal dolore: «Fa male, è troppo doloroso!»
«Il piede è rotto, è ovvio che faccia male.»
«Rotto? E come farò per la gara?».
«Non ne parliamo ora, non sono io che deciderà cosa potrai fare…»
Irrompe nella stanza Grace che aveva visto tutto: «Ho visto che ti sei fatta male, Rachel. Come stai? Vado a chiamare qualcuno?»
«Bene…»
«Si, Grace. Va’ a chiamare l’allenatrice. Chiamerà lei il 911.»
Grace neanche mi risponde, comincia a correre verso le vasche.
Sento la voce del coach: «Cavolo!» e poi delle scarpe veloci che sembravano avvicinarsi ad ogni millesimo di secondo.
«Rachel! – mi squadra come per dire “dimmi che non sei stata tu”, io faccio un “no” con la testa – Chiamo i soccorsi.»
Per quindici minuti ho tenuto la mano di Rachel nella mia, quindi i più lunghi della mia vita, solo per farla sentire meglio. Adesso, anche se non l’avrei mai detto, mi sento un po’ sua amica, ma, chissà, magari poi torna in sé.
Dopo averla caricata dentro l’ambulanza, Grace mi ferma per un braccio: «Oh Dio, le hai tenuto la mano! Ora dovrai pulirle con la candeggina e asciugarle col fuoco». Cerca di farmi ridere, e ci riesce sempre, ma questa volta le accenno un sorriso, la tiro verso di me, e continuiamo l’allenamento programmato. La sera una persona normale direbbe: «Giornata stressante!», e lo direi anche io, ma la giornata non è ancora finita.
Sono appena le quattro, e devo riempire questa giornata con tutti gli impegni che ho, quindi lasciatemi continuare…

*Spazio scrittrice*
Ciao ragazzi, ora arriva il quarto. Preparatevi.
-Caracol

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