Rabbia

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Arrivo davanti alla porta di casa. Cerco le chiavi nella tasca anteriore dello zaino. Talvolta ho l'impressione che trovino soddisfazione nell'imbucarsi proprio sul fondo e nel farmi salire l'ansia. Riesco finalmente ad entrare in casa: l'odore di candeggina mi invade le narici, una luce abbagliante mi fa socchiudere gli occhi, la morbidezza del tappeto in ingresso esige che io mi sfili le scarpe per essere assaporata. Passo il corridoio, guardo verso il finestrone e intravedo Burro scodinzolare con aria compassionevole. Vedendo ogni cosa al suo posto, oltre a stupirmi, vengo pervasa da un innaturale senso di quiete di fatto molto insolito, che mi lava di dosso il peso dei libri di scuola.

Decido, mentre salgo le scale, di godermi un altro po' la tranquillità della mia casa vuota prima di mettere alla prova il mio autocontrollo pensando a ciò che mi aspetta. Appena giunta in cima, mi guardo riflessa sullo specchio del bagno: l'umidità dell'aria ha arricchito di boccoli i capelli crespi, due perle azzurre ai lati del volto asciutto sono trattenute da corone di ciglia lunghe e nere, delle labbra arricciate dalla tensione prosperano incastonate fra la pelle pallida. Senza scrupoli mi domando cosa pensa chi vede questo viso, cosa prova chi ne ammira i lineamenti smussati. Anche se lo temo, vorrei conoscere il giudizio che gli occhi dei passanti associano alla mia fisicità. Mi blocco su questo pensiero: non sbatto più le palpebre, inspiro meno ossigeno rallentando il battito cardiaco, schiaccio i piedi a terra. Stanco, appassito, sciupato, straziato, nervoso, irritato, dolce, insicuro, tenebroso, innocente, incompreso... un rumore metallico interrompe l'analisi seguito da - Sono a casa! - un infinità di consapevolezze malvolute trovano rifugio nella mia mente, l'accumulo di pressione si riversa in un "ciao" troppo affannoso e tagliente da poter essere lasciato inosservato, conseguenza di ciò è la domanda che mi viene posta: "Tesoro c'è qualcosa che non va??" . Giunti a questo punto è mio dovere chiarire che dare una risposta a questa domanda che soddisfi entrambi i membri della conversazione è un'impresa che considero fra le più difficoltose.

Mi sento insultata. Mi ritrovo immersa in un mare di spine che penetrano nella pelle, schizzano sia il sangue che le lacrime. È una domanda traditrice e meschina. Il mondo non si rende conto del male che fa. Solo quando tocca a lui soffrire si inchina ai tuoi piedi e pur di non perdere l'equilibrio ti concede un minimo di pace. Quel mostro bastardo non mi lascia nemmeno nel sonno, si è impadronito delle mie scelte, delle mie parole delle mie volontà, della mia anima, e io, che ormai non sono più io, dovrei rispondere in maniera lineare e asciutta alla domanda "c'è qualcosa che non va?". Questo è pretendere troppo da qualcuno che di risorse non ne ha più. A chiunque mi abbia posto il quesito senza nemmeno avere l'intenzione di ferirmi, ho saputo nascondere il morbo infernale, reprimendo la rabbia che l'inaccettabile ma inconscia cecità dell'interlocutore mi scatena dentro, ma adesso che ho davanti mia madre, la persona che passa con me una quantità inconsueta di tempo e che dovrebbe essere a conoscenza delle mie battaglie, delle mie lotte corpo a corpo con quella bestia indomabile, delle mie sofferte vittorie e immeritate sconfitte, non riesco a non mostrare il mio soqquadro interiore. Rimango per un attimo in silenzio sperando inutilmente che la mancata risposta venga capita. L'immagine allo specchio si è fatta più scura, il mio viso non è altro che un insieme indistricabile di spigoli taglienti. Gli occhi iniziano a diventare rossi e umidi sentendo per una seconda volta il suono straziante delle parole che compongono quel quesito assassino. "La forza delle parole." Questa frase mi accompagna fino al soggiorno dove mi attende un sorriso che mi altera ulteriormente. In questo momento mi sento un' istrice con i cunei rizzati e tutti sanno che non si accarezzano i porcospini.

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