Defenseless
“Non siamo mai così indifesi verso la sofferenza,
come nel momento in cui amiamo.”
Sigmund Freud
Se c’è una cosa che ho imparato nella mia vita, sia come professionista del settore sia come uomo, è che non si è mai in grado di capire veramente le persone fino in fondo. C’è sempre una zona d’ombra, una parte che viene tralasciata perché ci fa sentire nudi di fronte agli occhi dell’altro, degli altri.
E per questo è più facile celarsi dietro una ‘coperta di Linus’ piuttosto che mostrarsi per come si è: vulnerabili, suscettibili a cosa ci sta intorno, semplicemente perché proviamo sentimenti, positivi o negativi che siano. Siamo fatti così.
Ma un’altra cosa che ho imparato invecchiando è che le coperte non sono mai sufficientemente lunghe e larghe da coprirci interamente. C’è sempre un braccio che rimane scoperto, o una gamba…
La mia ‘coperta di Linus’ non è mai stata abbastanza grande da proteggermi, né soprattutto abbastanza spaziosa per accogliere e proteggere anche gli altri. Non come avrebbe dovuto essere, perlomeno.
Ho finito per tralasciare dietro di me cose e persone, focalizzandomi anzitutto su me stesso. Perché la psiche umana è così. Siamo animali sociali, abbiamo bisogno di vivere in comunità - come direbbe Aristotele - ma siamo anche estremamente egoisti. L’Io viene sempre prima dell’altro.
Anche se senza l’altro siamo niente…
È sempre stato più semplice analizzare gli altri che non me stesso: essere il ‘medico’ piuttosto che il paziente.
Ho sempre vissuto la mia professione pensando di avere tutte le risposte in mano. Sempre convinto che le mie conoscenze fossero sufficienti a sanare i dubbi dei miei pazienti. Ma i miei, di dubbi? Le mie domande?
Alla fine mi sono accorto che puoi studiare psicologia una vita intera, osservare i comportamenti umani, cercare di comprendere e interpretare i processi mentali ed affettivi che li determinano, come ho fatto io, ma essere comunque un pessimo psicologo.
Perché puoi sapere in cosa il tuo lavoro consiste, snocciolare a memoria definizioni su definizioni, ma poi… la pratica è un’altra cosa, soprattutto se da fare su se stessi.
Nonostante anni e anni di studi e di attività, pur essendomi ritagliato nel campo una posizione di tutto rispetto - tanto da fare del mio nome sinonimo di competenza - non posso fare a meno ora di ammettere di aver fallito miseramente nell’applicazione di quelle nozioni che credevo non solo di conoscere, ma di saper mettere in pratica.
Sapere non significa per forza saper fare. Anzi.
Perché se fossi stato veramente in grado di studiare i processi psichici, consci ed inconsci, cognitivi e dinamici delle persone attorno a me, come uno psicologo e psicanalista come me dovrebbe saper fare - e ho sempre creduto di saperlo fare, visti i risultati ottenuti dai miei pazienti - forse la mia vita non sarebbe andata a rotoli come invece è successo.
Ho fallito in quello che è l’obiettivo finale che il mio lavoro mi ha da sempre insegnato a ricercare: favorire il benessere delle persone.
In questo specifico ‘caso di studio’, il benessere della mia famiglia.
Ecco perché quando l’uragano è passato, lasciando dietro di sé solo le macerie, ho fatto del mio lavoro la mia ‘coperta di Linus’. Ho preso ad andare in giro sicuro di me, psicanalizzando tutti e tutto, parlando come un’enciclopedia umana, pur di non mostrare cosa stava dietro – come stavo io dietro.
Le mie stesse azioni hanno dato origine alla mia zona d’ombra, al mio tallone d’Achille. Volevo coprire la mia ‘nudità’: i miei fallimenti come uomo, marito e padre.
Nemmeno la malattia aveva frenato questa mia scelta. Perché è stata una scelta, un’azione volontaria, quella di nascondermi. Di non ascoltare gli altri e pensare solo a me stesso. Di rinchiudere i sentimenti che provavo dentro e verso me stesso - dopo quello che avevo fatto - in un angolo recondito della mia mente e del mio cuore.
Sono stato un codardo? Probabilmente sì. L’uragano l’ho creato io stesso, e non ho avuto il coraggio di affrontare le conseguenze dei miei errori, ma ne sono anche rimasto vittima.
Col tempo ho accettato serenamente, o così credevo, di poter vivere da vittima e carnefice nella mia gabbia dorata, dove tutto sembrava perfetto ma non lo era veramente, girando il mondo come il grande psicanalista Eugenio Nardi, depositario di tutte le risposte. Dentro di me, però, celavo la consapevolezza di aver ferito più persone di quante non ne avessi aiutate col mio lavoro.
Un giorno, tuttavia, la mia ‘coperta di Linus’ è scivolata dalle mie mani ed è caduta a terra, davanti agli occhi di una ragazza che poco sapeva di me, ma tutto sapeva di mio figlio.
E lì, il peggiore dei miei mali ha iniziato il suo lento e progressivo percorso verso la guarigione…
Si dice che ogni cosa che inizia abbia inevitabilmente una fine. E per uno come me, abituato a ragionare e far ragionare, è inevitabile pensarlo.
Essere pragmatici nella vita aiuta a controllare le cose, ad avere una presa sicura sulle proprie azioni. Io sono sempre stato pragmatico per mia stessa indole. Ho sempre pensato che per ottenere una cosa che volevo dovevo impegnarmi, studiare e lavorare affinché quel mio obiettivo diventasse realtà.
Ed è un modo di agire che ho fatto mio ed applicato in ogni singolo ambito della mia vita, dal lavoro alla sfera privata. Talvolta, l’ho portato anche l’esasperazione. Talmente tanto che a un certo punto, senza nemmeno accorgermene, più che pragmatico sono diventato cinico.
Ho messo me stesso al di sopra di tutto e tutti, ho preferito essere egoista piuttosto che vero. In parte per celare le insicurezze, in parte perché crescendo ho capito gli errori commessi e non volevo risultare debole.
Il grande psicanalista Eugenio Nardi non poteva essere debole. Non dopo tutto quello che aveva fatto per togliersi di dosso il peso di essere un semplice ragazzo di provincia. Non dopo tutto il successo ottenuto, sul lavoro ma anche fuori.
Ci vuole charme, carisma, per convincere i tuoi pazienti che non sei un ciarlatano – perché lo so che molti pensano questo di noi psicologi.
E quello charme funziona anche in altri ambiti, soprattutto con le donne.
Ne so qualcosa.
Perché è proprio quel mio carisma, quella maschera che è solo una delle mie mille sfaccettature - ma anche quella che maggiormente mostro - che mi ha portato a commettere errori su errori. In amore, soprattutto. Con la mia prima moglie. Con i miei figli.
Ci sono stati momenti in cui mi sono completamente dimenticato esistessero. Ho dato per scontato tante cose. E se sapevo che a certi errori non avrei mai potuto rimediare, né mi sentivo più di tanto in colpa per averli commessi, d’altro canto c’erano poche cose che avrei voluto cambiare e di cui mi sono pentito veramente.
Certo, mi è servito mancare l’appuntamento con la signora con la falce per un soffio per capirlo, ma ‘meglio tardi che mai’, no?
Quando mi sono risvegliato nel letto d’ospedale dopo il primo intervento al tumore, ecco, in quel momento ho capito che dovevo almeno provarci. Anche se sapevo non sarebbe stato facile. In fondo, con le parole ero piuttosto bravo. Potevo farcela, mi dicevo.
Però avevo dimenticato che il mio interlocutore sarebbe stato un uomo di legge, anche lui bravo con le parole. Bravo a difendere, a difendersi. E ad accusare, ad accusarmi. E con ragione.
Ho fatto di tutto per portarlo a pensare cosa pensava di me. E nulla per dimostrargli che non ero solo quello. Perché sarebbe inutile negare che l’immagine che si era fatto di me fosse vera. Sono stato un pessimo marito e un pessimo padre. Ma ero e sono anche altro.
Quando sono venuto a Spoleto la prima volta, era per provare a dirglielo, per provare a conoscerci, finalmente.
E se non fosse stato per quella ragazza, che all’epoca non era nemmeno più la sua fidanzata, avrei fallito miseramente nel mio intento. Mio figlio mi odiava. E aveva ragione a farlo, perché ho fatto solo danni con lui.
Ma te ne rendi conto solo quando arrivi a un passo dalla morte, quando ci arrivi vicino, ti guardi indietro e pensi a cosa hai fatto, a cosa hai lasciato.
Io dietro di me ho lasciato solo molte macerie. Quando ho riaperto gli occhi dopo aver rischiato di non farlo più, l’unico obiettivo che avevo chiaro in testa era quello di voler evitare che tra quella catasta di detriti ci fosse il pessimo ricordo di me come padre.
Avevo passato una vita intera senza mai amare, e alla fine ero rimasto solo. Di me non sarebbe rimasto nessun ricordo, solo una montagna di libri, pieni di nozioni e studi, che raccontano poco di me. Ed era solo per colpa mia.
Perché non ho mai creduto all’amore vero. Perché quello è solo per chi crede alle favole, mi sono sempre detto. Esistono i sentimenti, assolutamente. Ci ho sempre avuto a che fare, ho sempre lasciato che i pazienti - solo i pazienti - mi parlassero dei loro, ma non ci ho mai associato le storie che narrano nei romanzi o nei film. Quella è finzione. La realtà è ben diversa.
Nella realtà nessun amore dura per sempre. Non c’è la fata madrina e tutte quelle cavolate lì che aiutano i due innamorati a vivere per sempre felici e contenti. C’è forse solo la strega cattiva con la mela avvelenata che ti tenta.
E a me è sempre piaciuto farmi tentare, come Eva dal serpente nel giardino dell’Eden.
Il problema vero è che io non mi sono però limitato a mangiare la mela del peccato originale. No. Io ho mangiato tutte le mele dell’albero proibito. E a differenza di Eva, farlo non mi ha reso conscio della mia nudità, anzi. Mi è servito a nasconderla. E a volerne ancora.
Ogni mela, giorno dopo giorno, mi avvelenava sempre un po’ di più. Mi allontanava da cosa avevo e ho finito per perdere, mi rendeva sempre più cinico e apatico.
Una mela al giorno toglie il medico di torno.
In questo caso, il medico però ero io. E mela dopo mela ho lasciato il nido di casa, per vivere la vita come ho sempre voluto. Senza radici, senza legami. Ho sempre odiato i confini. Troppo stretti, soffocanti. I confini ti dicono cosa hai, delimitano quello che è tuo, ma lasciano fuori anche quello che teoricamente non puoi avere. Non hanno mai fatto per me.
Solo una volta ho quasi cambiato idea. Quando conobbi Elena. Con lei ho vacillato. Per un istante, ho creduto che forse alcuni confini non sono male, che sono accettabili. Poi però è nato Marco…
E allora, no.
L’amore vero non esiste. Non esiste quel sentimento che supera ogni ostacolo, perché nessun uomo è veramente altruista da mettere l’altro prima di se stesso. O almeno questo credevo, prima di venire a Spoleto tre anni fa…
Incontrai Elena per la prima volta durante il mio secondo anno di università a Genova. Città caotica e apparentemente fredda, ostile, soprattutto per chi viene da fuori come me.
Figlio di emigrati dal sud, per motivi economici e di lavoro, i miei genitori si erano stanziati nell’area metropolitana della città, lungo il confine settentrionale con il Piemonte.
Feci scuole medie e liceo in quel contesto ‘provinciale’. Crescendo, vedendo i sacrifici dei miei genitori e le limitazioni che la vita di provincia ti dà, mi ero progressivamente convinto che quella realtà mi stesse stretta. Che non era quello il posto per me. Ho sempre sentito in me quella irrefrenabile voglia di allargare i miei orizzonti. Di vedere il mondo fuori.
Da piccolo mi sentivo un po’ come Cristoforo Colombo, alla ricerca di una via alternativa per le mie Indie. Quando mi guardavo intorno, non vedevo quella stessa voglia nei miei amici.
È lì che ho iniziato a interrogarmi su cosa muovesse le scelte di un individuo. Perché ogni essere vivente avesse esigenze e sogni diversi.
Con quelle domande in testa, alla fine del liceo avevo fatte le valige ed ero partito alla volta della città, per studiare Psicologia all’università e per scoprire meglio chi io fossi. Col senno di poi, non so quanto di me io abbia scoperto in quel frangente.
L’impatto con la città inizialmente mi destabilizzò. Genova la Superba. E i suoi cittadini? Superbi anche loro. Almeno in apparenza. All’epoca era più facile stereotiparli che provarli a capire. In fondo uno stereotipo non nuoce apparentemente a nessuno, ed è la scorciatoia mentale più facile da intraprendere per valutare le persone. Non ha una base scientifica, non è una regola applicabile universalmente. È solo più semplice considerare la massa come un tutto, che non accettare che sia composta al suo interno da tante entità distinte.
Durante i miei studi universitari ho imparato a conoscere di più la città, i suoi cittadini. Mi sono ambientato.
Ho scoperto che Genova aveva molto da offrire, anche a un mezzo ‘foresto’ come me. E che non voleva essermi ostile, ma solo insegnarmi che le cose vanno conquistate con la fatica, con la pazienza, come i liguri si erano ritagliati lo spazio per abitare, coltivare e vivere quella regione scoscesa e piena di insidie.
E lì è cambiato tutto. O meglio, è cambiato il mio modo di vedere Genova. I genovesi non erano diventati improvvisamente meno superbi, ma ho capito che c’era di più. Che quel loro essere apatici, supponenti a tratti, non è un difetto, ma semplicemente il loro modo di essere. E mi ci sono riconosciuto. Anche troppo, forse.
Ma nelle viuzze - anzi nei carruggi - della città, si poteva trovare, oltre quella apparenza burbera, anche il calore affettuoso della gente ligure.
Ed è proprio lì che ho incontrato Elena.
Era la figlia del proprietario di un ristorantino a due passi dalla facoltà di Psicologia. Lo scovai per caso una mattina che pioveva ed ero senza ombrello. Ci ero arrivato letteralmente di corsa per evitare di prendermi l’intero acquazzone, anche se era stato vano - a Genova quando piove, piove veramente.
In quella occasione, quel ristorantino era semplicemente il posto più vicino e l’unica alternativa al saltare il pranzo.
Successivamente divenne però la sede di tutte le mie pause pranzo, per i suoi prezzi adatti alla mia tasca - allora non tanto piena - e per via della ragazza che ci lavorava.
Elena era spesso lì ad aiutare i genitori nell’attività di famiglia. Di lei mi colpì la sua ingenua bellezza: boccoli biondi e due occhioni da cerbiatta. Quel giorno mi offrì un posto a sedere vicino a uno dei termosifoni della saletta principale, preoccupata che mi prendessi un malanno.
Ci era voluto un niente perché catturasse il mio interesse.
Ci ho sempre saputo fare con le ragazze, fin da quando ero al liceo. Nella mia vita adolescenziale avevo avuto la mia buona dose di flirt e storie. Durante l’università non mi ero fatto mancare niente nemmeno.
Sono sempre stato un Don Giovanni.
Sapevo di avere un certo fascino e non ho mai avuto problemi a sfruttarlo. Se decidevo di conquistare una ragazza, in un modo o in un altro, ci riuscivo.
E lei mi piaceva molto, quindi la mia risoluzione era maggiore.
I suoi genitori non erano molto convinti di me, lo ammetto, e col senno di poi avevano ragione a dubitare.
Elena, a differenza di altre, non rimase un semplice flirt.
A un certo punto ho perfino creduto che forse mi avrebbe fatto cambiare idea sul non pormi confini. Con lei sono arrivato addirittura a pensare di mettere radici ed accasarmi. Ed inizialmente sembrava essere riuscita là dove tutte le altre avevano fallito.
Tuttavia, dietro a ogni storia d’amore si celano sempre le persone che compongono la coppia, e io forse sono sempre stato affetto da ‘dongiovannismo’.
Mi sono sempre piaciute le belle donne. Non ho mai nascosto quando una ragazza mi piacesse, anche nel momento in cui io ed Elena eravamo già una coppia. Sono sempre stato un gran Casanova, pronto a dispensare complimenti a destra e manca. Non ci ho mai visto nulla di male a ‘giocare’ un po’ con le signorine prima e le signore dopo quando si mostravano interessate a me. In fondo, non promettevo loro niente di più di qualche attenzione e poche ore del mio tempo. E loro non pretendevano niente da me. Non c’era nessun vero legame, niente di definito, delimitato.
Ogni nuova conquista era qualcosa di nuovo che mi ‘apparteneva’, ma non mi appagava a tal punto da dire “questa è la meta finale”. Il mio viaggio per le Indie era ancora tutto da intraprendere.
E nessuna donna è mai riuscita a convincermi a gettare l’ancora e fermarmi.
Nemmeno Elena.
Non dopo che ci siamo sposati. E neppure dopo che lei è rimasta incinta.
Quando mi disse di esserlo una parte delle mie insicurezze di ragazzo era riaffiorata. Avevo sempre cercato di nasconderle dietro al mio carisma e alla mia spavalderia, ma in fondo anche io sono un uomo come gli altri.
E in quel frangente mi sono sentito più debole che mai. Un vero e proprio codardo, oltre all’egoista che già ero di mio. Non ero pronto a diventare padre. Non lo sono mai stato nemmeno dopo.
Non mi sono mai sentito all’altezza delle aspettative, anche se avevo sempre sognato in grande nella vita. Ho sempre avuto la percezione che nonostante gli anni sarebbero inesorabilmente passati e avrei raggiunto gli obiettivi prefissati, non sarei mai stato pago del risultato. E avrei continuato, compulsivamente, ad essere il ragazzo di provincia soffocato dai confini e alla ricerca delle sue Indie che aveva lasciato il suo paese dopo il liceo. Pieno di domande e dubbi, nonostante fossi nel frattempo diventato uno psicologo e fornivo risposte agli altri.
Tutto questo non giustifica certamente le mie azioni successive. Ammettere queste cose non cancella gli errori che ho commesso. Però spiega cosa ho fatto.
In quel momento, la notizia di Elena incinta portava la mia testa a vedere il matrimonio e la famiglia che si stava formando come una gabbia.
Guardandomi attorno vedevo quanto avevo fino a quel momento ottenuto e non lo ritenevo sufficiente. Volevo di più, potevo ambire ad avere di più, ad allargare ancora i miei confini.
Il mio meccanismo di autodifesa delineava a me quel perimetro come un ostacolo che mi avrebbe precluso di raggiungere i successivi obiettivi.
Avevo paura, in altre parole, che quei confini fossero definitivi, quando io volevo invece uscire dal nido. Cercare cosa mi rendesse felice, pensando che tanto cosa avevo conquistato fino a quel momento non lo avrei perduto. Che quando volevo, bastava tornare al nido e avrei ritrovato tutto com’era.
E allora l’ho fatto. Sono andato a cercare quello mi mancava fuori dal perimetro che si era nel frattempo costruito.
Solo parecchi anni dopo ho capito cosa avevo lasciato indietro. Chi avevo lasciato indietro.
Il mio carisma e la mia voglia di fare mi permisero di racimolare in fretta un cospicuo numero di clienti presso il mio studio, nei mesi successivi all’abilitazione alla professione. Questo mi permise di mantenere la mia famiglia, anche se non era nei miei piani averne una in quel momento.
Nel tempo ho continuato a studiare e aggiornarmi per essere sempre impeccabile nell’esercizio del mio lavoro, conscio che il solo carisma non mi sarebbe stato sufficiente per fare carriera.
Ormai ‘intrappolato’ in una vita privata che allora non desideravo, nei libri e nelle nozioni di psicologia nuove che apprendevo trovavo le risposte ai problemi degli altri e questo – almeno sul lavoro - mi appagava. Mi rendeva consapevole del fatto che i miei sforzi non erano stati vani, che lasciare la provincia per trovare fortuna in città era stata la scelta giusta per me. Presto iniziai anche a tenere convegni e presenziare a iniziative importanti.
Tutto esternamente sembrava perfetto.
Sembrava, però. Perché dietro la maschera del giovane di successo con una splendida moglie e un figlio adorabile, si celava un mondo tutto fuorché idilliaco. E un uomo tutto fuorché perfetto.
Con la nascita di Marco, Elena aveva messo nostro figlio al centro del suo mondo, trascurando me. Inizialmente non ci avevo dato peso, anzi. Proprio perché psicologo la capivo.
Però col tempo la situazione è andata cambiando. Ho cercato a lungo di non dare a vedere a mia moglie che il fatto che le cose fossero mutate non mi pesasse. Ma sono sempre stato egoista. E seppure chi che la distraeva dal darmi attenzioni era solo uno scricciolo di un paio di mesi, la cosa non mi fermava dal provare gelosia. Essere geloso di proprio figlio... esiste qualcosa di più umiliante? O forse dovrei dire “di più insensato” – ma a pensare questo ci sono arrivato tardi.
Sapevo che Elena mi amava, che è normale per una madre dedicarsi e spendersi così tanto per un figlio, fino a dimenticarsi temporaneamente che c’è il padre di quel figlio da tenere in considerazione, presumibilmente suo marito. Ma questa consapevolezza non mi fermava dal provare cosa sentivo allora.
Alla ricerca di ossigeno per tornare a respirare e liberarmi dal soffocamento che la quotidianità famigliare sembrava provocarmi, mi sono dedicato al raggiungimento di nuovi obiettivi. Ovviamente nel ‘lavoro’.
Ho iniziato a passare sempre più tempo fuori casa, e quando invece c’ero passavo il tempo principalmente nel mio studio. Del marito esemplare che avevo cercato in un primo momento di essere, ben presto non rimase più nulla.
Esternamente non cambiò mai niente. Tutto in apparenza era uguale. Semplicemente, come spesso accade, il padre di famiglia alla nascita di un figlio prende a lavorare di più per poter sostentare quel nucleo che si allarga.
E così sono aumentati i ‘convegni’ a cui partecipavo, le ‘presentazioni dei libri’ che scrivevo, i ‘viaggi’ per altre città perché la mia fama aveva scavallato i confini regionali.
Alcune volte erano impegni reali. Altre volte era solo un modo per coprire le mie storie extraconiugali.
Sentivo il bisogno fisico di esorcizzare quella stupida gelosia, di sentirmi di nuovo – narcisisticamente – il centro delle attenzioni di una donna. O più di una. Perché in fondo stavo ‘giocando’.
Ora so di aver sbagliato, che avrei dovuto gestire la situazione diversamente.
Ma all’epoca era stato più facile passare di conquista in conquista, relegare al fondo della storia Elena e Marco, che ammettere che il problema fossi io.
Che fossi – sono - egoista. Perché prima e al di sopra di me non ho mai accettato ci fosse niente. Perché qualora ci fosse stato qualcosa, quel qualcosa mi avrebbe ingabbiato.
E si può facilmente capire che quando Marco è nato, quel qualcosa nella mia testa è diventato lui. Che si è posto al di sopra di me, provocando l’uragano che ci ha travolto.
Che ha travolto me, troppo debole per accettare la verità e pronto a rifugiarmi in una serie infinita di storie temporanee che mi facessero sentire uomo, piuttosto che dimostrare di esserlo.
Che ha travolto Elena, vittima inizialmente inconsapevole di ripetuti tradimenti e che anche una volta venuta a conoscenza degli stessi, si è mostrata più forte di quanto io mai possa anche solo provare a essere.
Che ha travolto soprattutto Marco, un bambino all’epoca che aveva solo bisogno di essere amato. Che avrebbe accettato gli errori dei genitori, purché in buona fede, come tutti i figli fanno. Perché capiscono più di noi adulti. E per questo soffrono il doppio davanti a certe verità.
Da quel momento, per anni, ho messo me narcisisticamente prima di lui e di sua madre, al di sopra anche di tutte quelle relazioni intrecciate con donne viste una notte e poi mai più.
Me al di sopra di tutto.
Inizialmente ero stato molto attento a non far scoprire nulla a mia moglie della mia infedeltà - come tutti gli uomini infedeli e insicuri, incapaci di chiudere un capitolo perché egoisticamente è più semplice sapere che c’è qualcuno che ancora ti attende, se mai ti stufassi di quello nuovo.
E poi perché per me quelle storie, quelle donne, non contavano nulla. Inseguivo solo il piacere di un incontro fugace. Inseguivo la mia smania ossessiva di libertà. Inseguivo l’appagamento personale, oltre a quello lavorativo.
Ho imparato col tempo che non sono in grado di creare un vero e sincero dialogo con le persone, in altre parole di intrecciare relazioni. Trovo coscienza di chi sono, del mio esistere, nella superficialità dei rapporti che istituisco. Perché mi sottraggono per un momento dalla mia solitudine, e perché l’ego prende coscienza di sé solo nel momento in cui interagisce con l’altro.
Ogni storia, ogni notte trascorsa con una nuova donna, era per me un modo per ricordarmi che esistevo, che per qualcuno ero importante, anche solo per un istante. E non mi rendevo conto che io ero già importante per qualcuno. Che dovevo semplicemente guardare oltre lo specchio, in cui come Narciso mi beavo di me stesso.
Relegato al fondo di questo quadro che mi vedeva protagonista, c’era Marco, mio figlio, che intanto cresceva, ed io non me ne curavo come avrei dovuto. Pensavo fossero sufficienti i soldi che portavo a casa per rendere felice anche lui. Non sapevo veramente nulla su come essere padre.
Quando ero a casa, passavamo poco tempo insieme e lo facevo spesso senza neanche prestargli la giusta attenzione. Mi informavo appena del suo andamento scolastico, sempre abbastanza soddisfacente, e – le rare volte in cui mi ricordavo – di come fosse andata l’ultima partita di calcio che aveva ‘giocato’, perché è sempre stato una pippa.
Alcune volte mi stupivo addirittura che io mi ricordassi di averlo iscritto a scuola calcio. Altre mi sentivo in colpa perché mi rinfacciava di come gli avessi promesso di andare a vederlo e poi non ci fossi andato. Ma durava un istante il mio rimorso. Poi tutto tornava come prima.
I miei impegni, il mio lavoro, le mie necessità, il mio essere un Casanova tornavano ad essere le mie priorità, e Marco ed Elena lo sfondo.
La mia vita e quella delle persone che mi stavano intorno sono cambiate quando ho conosciuto Alessandra. Rimasi stregato da quella donna. Alta, mora, sensuale, sicura di sé. L’opposto di Elena. Ed è stata anche più dura da conquistare. Ci siamo conosciuti a un convegno a Firenze. Era una delle hostess. Speravo diventasse l’ennesima conquista di una notte. Invece, non cadde nella mia trappola come tutte le altre.
La rividi qualche settimana dopo, alla presentazione del mio – allora – nuovo libro. Sempre a Firenze. Fu lei ad avvicinarmi, al contrario della prima volta. Giocò al mio stesso ‘gioco’. E nella trappola caddi io.
Alessandra non cercava una storia, solo qualcuno con cui divertirsi. Voleva essere libera, come me. Per questo fu facile con lei. Divenne la mia amante stabile. Non aveva problemi col fatto che nel mentre ci fossero altre donne, né che ci fosse una moglie, e un figlio. In fondo, quello era un problema mio.
Alessandra era il ritratto della femme fatale, e io non avevo resistito a quel fascino.
Non pretendeva nulla, non chiedeva, non insisteva. Al contrario di mia moglie che aveva iniziato a domandare, seppur io non le dessi risposte concrete ribadendo fossero solo sue fantasie.
Quella storia con Alessandra andava avanti da quasi un anno, quando decisi di porre fine al matrimonio con Elena.
La mia vita coniugale non mi soddisfaceva, essere marito e padre non faceva per me.
Per questo, durante quelli che poi furono gli ultimi mesi del mio matrimonio con Elena, iniziai a frequentare Alessandra senza nascondermi. Senza nascondere nemmeno le tracce dei nostri incontri.
Elena inizialmente non disse nulla, ma i suoi sguardi eloquenti e colmi di lacrime erano sufficienti a mostrarmi che aveva capito avessi un’altra donna. Se non provava a opporsi, era perché non voleva che Marco si accorgesse di nulla. E forse perché sperava che col tempo io avrei cambiato idea e sarei tornato al nido familiare.
Ma così non è stato. E un giorno, senza alcun preavviso, presi le mie cose e me ne andai di casa. Andai a vivere proprio da Alessandra, anche se le cose tra me e lei non cambiarono. Non diventammo una coppia, solo perché avevo lasciato mia moglie. Non sentivamo il bisogno di etichettare cosa fossimo. Perché avrebbe posto un nuovo confine, avrebbe significato legarsi a qualcuno, piantare radici. E nessuno dei due andava cercando quello.
Marco aveva solo undici anni quando me ne andai di casa. Lasciai ad Elena l’incombenza di spiegargli perché non sarei più tornato. Anche se penso lui già sapesse perché me ne ero andato. Durante quell’anno di ‘relazione’ con Alessandra, in cui ero ancora a casa con lui e sua madre, aveva cominciato a trattarmi con freddezza. Non mi chiedeva più di andare alle sue partite. Col tempo era come se non si aspettasse più niente da me.
È sempre stato un ragazzino intelligente, con una sensibilità maggiore rispetto agli altri della sua età. Non è cambiato poi così tanto come si potrebbe credere nel tempo. Oggi in lui, quel ragazzino vive ancora.
Passarono anni dal giorno in cui lasciai casa, prima che io e Marco tornassimo a rivederci. E non fu un gran giorno quello in cui l’incontro avvenne.
In quel tempo vissuto distanti, continuai comunque a sostentare Elena e mio figlio, inviando il denaro per garantirgli gli studi e da vivere. Non sono un gran uomo di onore, ma ho sempre riconosciuto le mie responsabilità, legalmente parlando perlomeno.
Ogni mese, per quasi sei lunghi anni, mi sono recato alla mia vecchia casa per consegnare ad Elena l’assegno mensile. E per sei anni, lei ha sempre fatto in modo che Marco non fosse presente quando io passavo.
Ad oggi ancora non so se fosse per proteggerlo o perché era proprio lui a non volerne sapere nulla di me, di quel padre che non c’era mai stato per lui. O entrambe le cose.
Non glielo ho nemmeno chiesto dopo che ci siamo riavvicinati in questi ultimi anni.
Ad ogni modo, durante quelle mie visite, col tempo, mi accorsi che qualcosa in Elena non andava più come prima. Lentamente e inesorabilmente stava diventando il fantasma di ciò che era stata. Di quella innocente bellezza che mi aveva catturato un ventennio prima presto non rimase più nulla.
Occuparsi da sola di Marco aveva provocato quella sua sfioritura - o molto più probabilmente quello che le avevo fatto io.
Se cercò di andare avanti, per anni, pur non avendone le forze, facendo mille sacrifici, era solo per il bene di suo figlio.
Perché nonostante io provvedessi al suo mantenimento senza saltare un mese, lei insisteva nel prendersi cura da sola del suo bambino, tenendo da parte quei soldi che io le davo perché Marco potesse utilizzarli per inseguire i suoi sogni, per costruirsi un futuro che gli piacesse.
Mi era ignaro, allora, quale fosse il sogno di mio figlio, il sogno di quel ragazzo che, pur legato a me biologicamente, non conoscevo per niente. Che per me era quasi un estraneo.
Scoprii per caso cosa desiderava di fare nella vita.
Se non fosse successo cosa è successo, probabilmente non lo avrei saputo mai. O forse lo avrei scoperto solo quando sarebbe diventato famoso.
Ammetto di aver fantasticato per anni su cosa potesse sognare. Me lo vedevo già calciatore, anche se ignoravo come potesse - quella pippa che vagamente ricordavo di aver visto giocare – essere migliorato.
Ero già pronto in quel caso a vivere di gloria riflessa, ad essere “il padre di”, insomma. Una vita da calciatore, nelle massime serie, ti permette di vivere una signora vita. Lo avrei accettato, anche se la mia idea di ‘lavoro’ era tutt’altra.
Elena non mi disse mai di cosa si trattava realmente, però. Evidentemente, conoscendomi, sapeva che non avrei accettato le sue scelte. Che avrei criticato la cosa, che mi sarei opposto, come ho poi fatto.
Perché contrariamente a cosa io avevo fantasticato, il sogno di mio figlio non aveva nulla a che fare col calcio.
Lui voleva fare l’attore.
Elena lo aveva anche iscritto a vari corsi di recitazione tenuti presso l’oratorio del quartiere, in un teatrino sgangherato, fin dall’anno dopo la nostra separazione, quando io ero convinto fosse ancora iscritto a scuola calcio. Lì si era appassionato a quel mondo. Lì aveva iniziato a pensare a un futuro sui palchi dei teatri più importanti d’Italia, o chissà anche in televisione o al cinema. Gli artisti solitamente sognano in grande.
Però quel sogno per Marco è rimasto chiuso nel cassetto. Perché la sua vita, insieme alla mia, è cambiata una mattina di metà marzo, a poche settimane dal suo diciassettesimo compleanno.
Mi trovavo a Milano per lavoro. Ero a cenare dopo il mio ultimo intervento con i colleghi quando il mio cellulare aveva cominciato a suonare incessantemente. Avevo ignorato le prime telefonate pensando fosse la mia ex amante, Alessandra, che tentava di contattarmi per quello che all’epoca era un segreto solo tra noi due.
Al quinto tentativo, stufo di sentire la suoneria, guardai chi mi stava contattando. Veronica, la sorella della mia ex-moglie.
Tornai a Genova la sera stessa. Veronica mi aveva telefonato perché nel tardo pomeriggio Elena si era sentita male. Un arresto cardiaco. Marco era solo. Aveva bisogno di suo padre. Anche se ero stato pessimo fino a quel momento, e l’ultima cosa che avrebbe voluto fare Veronica era interpellarmi.
Arrivai in fretta all’ospedale, ma non abbastanza.
Al mio arrivo, trovai Marco disperato, inconsolabile, tra le braccia di sua zia. Nonostante il più tempestivo degli interventi, per Elena non c’era stato niente da fare. Il suo cuore, esausto dopo tanti anni di sofferenza, non aveva retto più.
Mi ritrovai, poco più che quarantenne, a dover fare – veramente quella volta – il padre. Non potei tirarmi indietro dall’accogliere con me Marco, dopo la dipartita di Elena. Per legge, sarebbe dovuto rimanere sotto la mia tutela almeno finché non sarebbe stato maggiorenne.
Inutile dire che lui non mi voleva, e che mi ritenesse responsabile per la morte di sua madre. Era colpa mia, diceva, per tutte le volte che l’avevo tradita e l’avevo fatta soffrire. Era morta per causa mia, e non aveva torto.
Il nostro rapporto già logoro – per non dire inesistente – non portò altro che a continue liti, per via di quella convivenza forzata e per il mio carattere tutto fuorché compatibile col suo. Per qualche mese, Marco rifiutò di piegarsi alla mia autorità di padre. Dopotutto non lo ero mai stato per lui.
Ciò non toglie che la cosa mi desse fastidio. Vederlo crogiolarsi nel ricordo e nel dolore per la perdita di sua madre invece che mostrarsi uomo e riprendere in mano la sua vita era uno smacco per me. Non poteva essere un Nardi.
Così decisi io per lui. Avevo bisogno di ristabilire l’autorità che avevo perso – per mio stesso volere – anni prima. Lo obbligai a lasciare il teatro nonostante avessi saputo fosse molto promettente. Farlo eliminava il legame con la madre, mi sembrava il miglior modo per fargli superare il lutto. Slegarsi dal passato per andare avanti. E poi perché quel suo sogno che esistenza avrebbe potuto dargli? Vivere alla giornata non era quello di cui aveva bisogno mio figlio. No, doveva fare un lavoro serio. Uno qualsiasi, ma lontano dal palcoscenico. Un attore, figuriamoci.
Protestò a lungo. Se non fosse che già mio odiava a quel punto, probabilmente avrebbe iniziato dopo quella mia presa di posizione.
Le cose non migliorano dopo che ci trasferimmo a Roma. Quale miglior modo di ricucire il rapporto con tuo figlio, se non quello di allontanarlo dai suoi amici e portartelo a vivere insieme in un’altra città? Eh, sì, sono ironico.
Il mio trasferimento era dovuto perlopiù al lavoro, ma anche per allontanarmi da Alessandra, la mia ex amante.
Un anno prima della morte della mia ex moglie, era rimasta incinta. Il figlio era mio. Ma visti i risultati con Marco, di cui lei era del resto a conoscenza, come poteva pretendere che volessi un altro figlio? Tentò in tutti i modi di farmi riconoscere Franco come mio, ma invano.
Per la seconda volta nella mia vita, decisi nuovamente di scappare dalle mie responsabilità. Quella volta, letteralmente.
Roma per me era una seconda casa. Per lavoro ci ero stato già spesso. Ma viverci con tuo figlio che ti odia è un’altra esperienza. Continuammo a litigare a lungo, il suo odio non diminuì mai in quell’anno che legalmente era obbligato a vivere con me. Minacciò spesso di andarsene di casa non appena compiuti i diciotto anni, ma sapeva che non poteva sopravvivere senza i miei soldi a mantenerlo. A un certo punto trovammo un punto di incontro, ma anche di separazione.
Accettò di non inseguire il suo sogno, di prendere una strada più sicura. Ma lontano da me. Quando me lo disse, presi le sue parole come un affronto.
Tuttavia, era chiaro a entrambi che non ero capace di essergli padre, ancor meno dopo che lui scoprì dell’esistenza di Franco, per puro caso, quando Alessandra si presentò senza preavviso a casa nostra a Roma e io non c’ero.
Terminato il liceo, mio figlio fece come me. Prese e se ne andò di casa. Anche lui per fuggire da una vita che gli stava stretta. Quella forzata con me.
Come da accordi, intraprese l’università. Litigammo perché non vedevo come mai dovesse andare a Perugia a studiare, quando a Roma avrebbe trovato una preparazione adeguata a lui. Ma i patti erano stati chiari. Voleva andarsene lontano da me. Gli mantenni quindi gli studi per i primi anni, poi non volle il mio ‘aiuto’ nemmeno in quello. Si trovò un lavoro, sfruttò i suoi risparmi. Cercò di slegarsi da me. Da quell’uomo che gli aveva dato la vita, ma gliela aveva anche rovinata.
Dopo di allora ci vedemmo ancor più raramente, di rilievo ci furono solo i giorni in cui conseguì la laurea - in giurisprudenza - e quando superò il test per diventare magistrato - al primo tentativo. Quei suoi risultati ottenuti brillantemente non mi stupirono. Sapevo fosse un giovane capace e non volevo che quel talento andasse sprecato. Per questo avevo fatto di tutto per allontanarlo dal sogno della recitazione.
Decise di rimanere a Perugia, di iniziare la sua carriera da lì, o nella provincia. A lui quella realtà non stava stretta come a me evidentemente. Di tanto in tanto lo chiamavo per sapere come stesse, ma continuò sempre a rinfacciarmi le mie colpe, e ognuna di quelle telefonate sfociava inevitabilmente in un litigio. Così col tempo anche quelle andarono a diminuire. E bene presto di mio figlio seppi solo tramite racconti altrui. Parenti, conoscenti con cui era rimasto in contatto, che si informavano su come stesse.
Pensavo che il giorno della morte di Elena quello rimasto ‘solo’ fosse lui. Invece da solo sono rimasto io. Avevo fallito in tutto, come marito, come padre, perfino come amante. Mi odiavano tutti. Anche il mio secondo figlio. Che vidi per la prima volta quando aveva già otto anni, e nel giorno del suo compleanno per di più. Accettai di vedere Alessandra poco dopo l’ennesimo litigio con Marco. Per un istante avevo pensato di poter provare a creare un rapporto diverso con Franco. Provare a essere almeno per lui un padre. Invece la paura di non essere all’altezza mi pervase dopo averlo visto e scappai ancora una volta.
Un codardo. Un egoista. Non sono mai stato capace di essere niente di più. E a un certo punto ho accettato la cosa. Serenamente. O almeno questo credevo e andavo dicendo nelle interviste. Eugenio Nardi, il raffinato psicanalista, era felice della sua vita.
Almeno finché non si soffermava a riflettere veramente su di essa. O quando non scopriva cose nuove sulla vita dei suoi figli…
Seppi che Marco doveva sposarsi - la prima volta - dalla mia ex-cognata. Ero tornato a vivere a Genova dopo la laurea di Marco. Se voleva stare lontano da me, quale miglior modo che aggiungere chilometri tra di noi? Per una volta avevo fatto qualcosa che sicuramente aveva apprezzato.
Ricevetti l’invito al matrimonio poco dopo. Probabilmente più per volere della sua futura sposa che non suo. Dal medesimo scoprii che viveva a Spoleto. Mi recai da lui qualche giorno dopo, per conoscere la sua fidanzata. Ovviamente dopo essermi premurato di avvisare Marco. Non penso avrebbe apprezzato una mia improvvisata.
Incontrai quella che allora era la sua fidanzata durante un pranzo domenicale. Mi pare si chiamasse Federica, una ragazza bionda, carina, molto sicura di sé. Il tipo di donna che è sempre piaciuto a me. In altre parole, non esattamente quello che pensavo potesse piacere a mio figlio, visto quanto siamo diversi.
In quella stessa occasione mi presentò anche il suo migliore amico Simone, che sarebbe stato il suo testimone di nozze.
Ricordo che al tavolo di quel pranzo la tensione si poteva tagliare col coltello. E non mi riferisco solo a quella tra me e mio figlio. Non compresi mai come Marco non si fosse accorto di quello che accadeva tra le persone che lui amava di più. Forse per me risultò più facile perché ero uno di loro. Forse, fra traditori, è più facile accorgersi di certi segnali.
Tuttavia, nonostante io mi fossi accorto di cosa accadeva tra la sua fidanzata e il suo migliore amico qualche settimana prima di lui, invece di mettere in guardia mio figlio - temendo che mi avrebbe accusato di mentire e di peggiorare le cose - preferii tacere. Preferii sperare di sbagliarmi malgrado l’evidenza.
Non fui dunque sorpreso di scoprire tempo dopo che il matrimonio era saltato.
Già, tempo dopo.
Perché non mi presentai al matrimonio, che comunque non ebbe luogo. Per tanti motivi. Su tutti l’essere conscio che probabilmente mio figlio non mi avrebbe voluto lì, in quello che dovrebbe essere uno dei giorni più belli della tua vita, a detta di molti. Perché la mia presenza era sempre stata un fastidio, dopo tutto quello che era successo.
In ogni caso, avevo previsto bene circa l’esito della sua storia con quella ragazza. Non potevo sapere quella domenica, quando Marco avrebbe scoperto del tradimento, se prima del matrimonio, in tempo per tirarsene fuori, o dopo. Però ero certo che prima o poi la verità sarebbe venuta a galla.
E che non l’avrebbe vissuta bene, visto il suo passato.
Per quanto sappia che non mi crederà mai nessuno, e per quanto sicuramente lui avrà sofferto nello scoprire quella pugnalata alle spalle, avevo accolto con felicità il fatto che non si fosse sposato con quella donna. Non avevano nulla da spartire. Non c’entrava nulla con lui. Lo poteva vedere chiunque, anche un estraneo come me.
Per mio figlio ci voleva una donna diversa, più simile ad Elena, non come quella Federica, tanto forte quanto presuntuosa. Forse proprio per questo l’aveva ‘scelta’ all’epoca. Magari era stato un modo per superare il complesso di Edipo, l’attaccamento a sua madre… chi lo sa.
Qualunque fosse il motivo, quel male non era venuto invano. C’era qualcosa che me lo lasciava presagire. Una sensazione. O semplicemente, dopo molti anni, speravo nella felicità di mio figlio, nella felicità di qualcun altro oltre alla mia. Una novità per quanto mi concerne…
Ma se quelle cose le pensavo, di certo non le ho mai dette. O dimostrate. Non mi sono mai premurato di chiedergli come stesse, o di andare a trovarlo. Semplicemente seppi dalla mi ex-cognata che il matrimonio non aveva avuto luogo e accettai la notizia per quella che era.
Una cosa però mi stupì di quella scoperta. Marco non lasciò Spoleto. Non decise, come più facilmente e avevo sempre fatto io, di scappare. Di andarsene da quel paesino al centro dell’Umbria, in mezzo alle montagne, dove per l’ennesima volta chi doveva amarlo, lo aveva tradito.
No. Aveva deciso di restare.
E circa un anno dopo la notizia di quel matrimonio saltato, ho capito perché era ancora laggiù.
Ad oggi non so cosa avesse spinto Marco a presentarsi da me a Genova quel giorno, dopo più di un anno che non ci vedevamo. Avevo saputo sarebbe stato in città, per le solite vie traverse, a trovare vecchi amici e parenti. Ma mai mi sarei aspettato venisse anche da me.
Però era lì, sull’ingresso di casa mia, di quella casa che un tempo era anche sua, quando quel pomeriggio aprii la porta. E non era da solo.
Al suo fianco c’era una giovane donna con due penetranti occhi verdi. Anna era il nome di quella graziosa fanciulla che gli stringeva le dita restando un passo indietro rispetto a lui.
Marco me la presentò con una luce negli occhi che non gli avevo, credo, mai visto prima. Per un attimo rimasi stupito di vedere mio figlio, quell’uomo che fin da bambino aveva sempre riservato tanta rabbia verso di me, lì a casa mia con la sua nuova fidanzata. Non si era sentito in dovere di presentarmi quella prima, se non a poche settimane dal matrimonio, e improvvisamente invece questa sì, senza nessun motivo apparente dietro.
La cosa che mi colpì immediatamente di quella ragazza fu che, al contrario della maggior parte della gente che riesco a inquadrare con una sola occhiata, lei sfuggiva questa mia capacità. Sapeva difendersi bene da chi cercava di introdursi a forza nel suo mondo, e soprattutto non aveva cercato di vendersi facilmente come aveva fatto l’altra.
Non cedette nemmeno al fascino dello psicologo famoso che bastava ad ammaliare chiunque, anzi. Era cauta e sospettosa. Da come parlava Marco, avevo intuito lei sapesse che i nostri rapporti non fossero idilliaci, però non sapevo se fosse a conoscenza di tutta la storia.
Di sicuro, i miei ‘giochetti psicologici’ - come li ha sempre chiamati Marco - con lei non funzionavano. Ne provai diversi per tutto il corso della loro permanenza a casa mia, ma lei non si fece fregare in nessuno, battendomi punto per punto, ogni volta, senza sforzarsi. Era evidente non fosse diventata Capitano dei Carabinieri a caso, e così giovane per di più.
Non si fidava di me, questo divenne chiaro ben presto, sia che sapesse, sia che non sapesse cosa avessi fatto in passato. Arrivai perfino a testare la sua pazienza apparentemente impossibile da scalfire, facendo una battuta - fuori luogo, lo ammetto - sulla precedente relazione di mio figlio.
La reazione, in realtà, la ottenni da lui. Anna però si limitò a dirmi, trattenendo Marco, che forse avrei fatto meglio ad ascoltare mio figlio, prima di parlare di cose che, evidentemente, non conoscevo. Tuttavia, si mantenne lontana dal fornirmi lei i dettagli.
Fu l’unica volta che la incontrai, prima della mia visita a Spoleto tre anni fa. Quell’unico incontro fu comunque sufficiente a spiegare quella sensazione di cui ho parlato prima.
Quella ragazza era l’opposto della ex di mio figlio. Ed era arrivata dopo il male dell’ennesimo tradimento.
Era quella giusta. E anche se non l’avevo capita come avrei voluto, c’era qualcosa in lei che la rendeva perfetta per Marco. E quella ‘epifania’ mi rese per la prima volta felice per qualcuno che non fossi io.
Lo capii ancora meglio quando ricevetti l’invito per il loro matrimonio qualche mese dopo. E avevo tutta l’intenzione di andarci, quella volta.
C’era qualcosa che mi diceva che nonostante quell’incontro non fosse andato nel migliore dei modi, mio figlio mi avrebbe voluto presente al suo matrimonio, o comunque non avrebbe ‘rifiutato’ la mia presenza. Forse il ricordo dei suoi occhi pieni di gioia di quando me l’aveva fatta conoscere, quella felicità vera che emanavano. O forse il semplice gesto di avermela presentata. Quasi come se fosse stato pronto ad aprirmi la porta, dopo avermela sbattuta in faccia per anni – e con ragione.
In ogni caso, ero deciso ad andare da lui per quel giorno speciale.
Ma il fato ha giocato a mio sfavore, mettendo sul mio cammino un nuovo incontro. Meno piacevole di quelli del mio passato, però.
Un tumore.
Tutti speriamo di non trovarci mai di fronte a un ‘verdetto’ di questo tipo, ma dopo anni ad avvelenarmi con le mele del peccato, forse me lo sarei dovuto aspettare. Voglio dire, pur non credendo nel karma, so di aver ferito molte persone, e questa forse è la mia punizione. Ho sempre messo me prima di tutto, e quando sono stato pronto a mettere la felicità di mio figlio, finalmente, prima della mia, sono stato costretto a mettere di nuovo me prima lui.
Certo, quella volta avevo un ‘buon’ motivo, ma… quando hai commesso tanti errori, come ho fatto io, non basta una giusta motivazione a cancellarne mille sbagliate.
Il medico specialista me comunicò del tumore senza girarci intorno, perché tra uomini di scienza sarebbe inutile farlo. L’impatto non per questo fu meno grave, poiché non avevo avuto particolari sintomi ad annunciarne la comparsa da dire che me lo aspettassi. Mi disse che era necessario operare, e in fretta, per avere maggiori possibilità di successo. L’intervento, nemmeno a dirlo, era stato fissato per il giorno successivo la domenica del matrimonio di Marco.
E per questo, non mi presentai.
Passai il giorno antecedente l’operazione a immaginare il matrimonio che stava avendo luogo a Spoleto. Ero certo che Marco non fosse stupito di non vedermi lì. Non lo avevo avvisato, quindi come la precedente volta - al di là dell’esito della cerimonia - lo aveva scoperto il giorno stesso. Come mille altre volte, pensavo, non gli sarei mancato. Non c’ero mai stato, che differenza faceva una volta in più?
Avevo buttato via tutto molto prima di quel giorno. Non sarebbe cambiato nulla se le cose fossero andate diversamente in quella circostanza.
Mi sono ripetuto quel mantra tutta la notte, in attesa dell’operazione.
Il nodo alla gola arrivò solo poco prima dell’anestesia.
In quel momento ero certo che se non mi fossi svegliato dopo l’operazione, se qualcosa fosse andato male durante di essa, per me poteva andare bene così. Non avevo più nulla da perdere, avevo già rovinato tutto nella mia vita, perso tutto. Non sarebbe importato a nessuno della dipartita del famoso psicanalista Eugenio Nardi.
Nemmeno ai miei figli sarebbe importato, probabilmente.
Solo quando quest’ultimo pensiero mi è passato per la testa, ho capito tutto.
Tutto il male che avevo fatto, tutte le persone che avevo ferito. Quanto ero stato egoista. Quanto ero stato stupido a pensare che i confini di una famiglia potessero rendermi prigioniero. Perché è stato il mio voler volare libero ad avermi invece ingabbiato in una prigione dorata.
A quel punto non mi importava più il rischio di avere ancora poco tempo da vivere, no... quello di cui avevo davvero paura era di non avere più tempo per recuperare il rapporto con mio figlio - con i miei figli.
Non li avevo mai trattati come meritavano. Non avevo mai dedicato loro le attenzioni giuste, non li avevo mai aiutati, ero sempre stato assente.
Non ero mai stato loro padre.
Si dice che i figli sono di chi li cresce, e io con miei non l’avevo fatto. Nonostante tutta la teoria che avevo studiato durante l’università, nonostante tutte le nozioni che avevo imparato e applicato nella mia lunga carriera ai casi di perfetti sconosciuti su come sistemare la propria situazione familiare, io con la mia non c’ero mai riuscito. Ma che dico, non ci avevo mai nemmeno provato. E il rimorso, quello vero, era arrivato solo quando ormai probabilmente era troppo tardi per tentare di cambiare le cose…
Quando ho riaperto gli occhi dopo l’operazione, ho deciso che ci avrei provato.
Non appena mi rimisi un po’ in sesto, chiamai anzitutto Marco, nella speranza che non riagganciasse senza rispondermi. Se volevo ricucire uno straccio di rapporto con i miei figli, avevo prima di tutto bisogno di farlo con lui. Col più grande. Con l’unico che sapesse, bene o male, l’intera storia. Non sapevo, all’epoca che la conoscesse anche Franco.
Per miracolo, penso, Marco non riagganciò. Avrebbe avuto tutto il diritto di farlo. Sentii la sua voce distante, spenta, rispetto all’ultima volta che ci eravamo sentiti. Non riagganciò nemmeno quando gli chiesi come fosse andato il matrimonio. Le nozze a cui non mi ero presentato e per la cui assenza in quella chiamata nemmeno fornii una spiegazione. La risposta che mi diede mi fece però rimpiangere di aver chiamato.
Non scese nei dettagli - quelli me li raccontò solo dopo il nostro riavvicinamento, quando abbiamo imparato a conoscerci meglio - ma mi disse che era stato annullato, che lui ed Anna si erano lasciati perché lei aveva ricevuto una proposta di lavoro importante per il Pakistan e aveva accettato.
Un altro tradimento, seppur poco prevedibile nella forma. Non seppi cosa dire, non gli chiesi come stava. Di fronte a quel mio silenzio, Marco disse solo che non aveva voglia di parlarne, soprattutto con me. E il tono duro usato non lasciava spazio a nulla. Solo a un vuoto incolmabile.
Poco dopo il vuoto mi attese anche all’altro capo della linea telefonica, quando Marco riagganciò, un semplice e freddo ‘ciao’ prima di lasciarmi da solo a rivivere quella telefonata nella mia testa.
La voce di mio figlio durante quella telefonata non era diversa da quella sentita in quel giorno lontano, quella del ragazzino distrutto per la perdita della madre, che non riusciva a farsene una ragione, che non trovava via d’uscita, di una trentina di anni prima.
Non era come per Federica, no. Quella volta il suo dolore era acuto e profondo. Non sarebbe andato via facilmente.
Stava soffrendo, terribilmente. Quel ‘tradimento’ da parte di lei faceva più male dell’altro. Perché Anna non lo aveva lasciato perché non lo amava. Aveva messo la sua carriera e in parte se stessa, prima di lui.
Era la seconda persona a farlo. La prima dopo di me.
Ma se io lo avevo fatto cinicamente e senza darvi peso, conscio che Marco a un certo punto si fosse anche rassegnato al fatto che non mi importasse di lui, quella ragazza certamente non lo aveva fatto a cuor leggero.
E neanche lui aveva lasciato che volasse libera a cuor leggero.
Lui aveva saputo fare, per l’ennesima volta, quello che io non avevo saputo fare mai: essere altruista. Pensare alla felicità di lei e non alla sua. Provocandosi una ferita che non è facile sanare.
Perché non si è mai così indifesi come quando si ama. E lui amava Anna.
Telefonandogli, rivoltando – senza saperlo – il dito nella piaga, avevo fatto ancora una volta un danno. Nella vita di Marco, il mio passaggio sporadico era non dissimile a quello di un elefante in una cristalleria.
E in quel frangente, io non ero la persona giusta con cui sfogarsi. Come potevo, io che avevo tradito sua madre con molte altre donne, capire cosa si provasse nel perdere l’amore vero così?
Per questo, nonostante i miei rinnovati buoni propositi, mi feci da parte. Per mesi non mi sono più fatto vivo.
Poi però un giorno ho preso l’auto e sono andato a Spoleto. Ho fatto tanti errori con mio figlio, il primo su tutti non stargli accanto quando ne aveva più bisogno. E quel giorno, anche se era stato con me freddo, lui aveva avuto bisogno di qualcuno accanto. Forse potevo essere io quel qualcuno.
Ma l’elefante ripresentandosi nella sua vita ha di nuovo fatto danni. Anzi, ho fatto danni nella vita di tutte quelle persone che negli ultimi anni gli sono state accanto, mentre io non c’ero.
Mi sono messo in mezzo alla storia tra il maresciallo Cecchini ed Elisa, la madre di Anna. Una bellissima donna, che per di più era mia fan. Una donna con cui un tempo non avrei esitato a ‘giocare’. E non esitai a farlo nemmeno in quel frangente. Nemmeno dopo ‘l’epifania’ avuta poco prima della mia operazione.
Il lupo perde il pelo, ma non il vizio.
E mentre ‘giocavo’ portando scompiglio nelle vite di quelle persone, e i giorni passavano, finii col perdere di vista il reale motivo per cui ero a Spoleto.
Non che prestando attenzione si potesse capirci qualcosa.
Ero venuto perché mio figlio soffriva a causa della ‘perdita’ della persona che amava. Eppure Anna era lì e non in Pakistan, per cui mi risultava tutto ancor più sfocato.
All’unica cena che l’aveva vista presente rimase persino stupita di scoprire quale fosse la spiegazione datami da Marco sulle loro mancate nozze, commentando – non so se con cognizione di causa – che forse io e mio figlio avremmo dovuto parlarci di più.
E dire che fossi arrivato a Spoleto anche per stargli accanto, per recuperare il nostro rapporto. Eppure per via della mia intromissione nelle loro vite, Marco diventava sempre più ostile nei miei confronti.
Niente andava in accordo con il piano. E quando l’ho visto furioso nel chiedermi perché fossi a Spoleto, dopo tutti i casini che stavo causando, beh lì ho decretato la mia sconfitta.
In quel preciso istante, ho capito che non c’era modo di recuperare un rapporto che in fondo non era mai esistito. Che il tempo non poteva essere riavvolto. Che mi odiava per quello che avevo fatto ad Elena. Perché non c’ero mai stato quando aveva avuto bisogno di me. E che sarebbe stato sempre così.
E io non sono riuscito a dirgli che invece volevo esserci da allora in poi. Ma che non sapevo per quanto avrei potuto stargli accanto, se mi avesse accolto nella sua vita. È stato più semplice, per una volta, dargli ragione. Non ribattere, non litigare. Accettare i fatti per come erano. Battere la ritirata. Perlomeno con lui.
Restai ancora qualche giorno a Spoleto, continuando a rovinare la vita delle persone che ormai mio figlio considerava famiglia. In fondo ero sempre stato bravo a fare del male alle persone che amava.
Quello che non sapevo però, era che uno di quei giorni, la persona che meno mi sarei aspettato volesse aiutarmi con mio figlio mi avrebbe teso la mano, anzi lo avrebbe sospinto da me, dopo aver scoperto la verità.
Una sera, uscendo da casa di Cecchini dove ero andato a recuperare il nécessaire che avevo dimenticato in bagno, incrociai Anna sul pianerottolo. Quando mi chiese perché ero lì e non in albergo, il segreto che custodivo gelosamente da mesi mi scivolò di mano. Letteralmente.
Nel tentativo di spiegare cosa stessi facendo, mi caddero gli oggetti che tenevo stretti al petto, fasciati in un asciugamano. Tra essi, quello che cercavo disperatamente più di tutti di nascondere a mio figlio, che viveva temporaneamente in casa del maresciallo.
Il barattolo con le compresse di Triptorelin, il farmaco prescrittomi per il mio tumore.
Fu Anna a recuperare il barattolo da terra. Da mente brillante qual è sempre stata. ci mise un niente a capire perché ero a Spoleto. E il suo atteggiamento nei miei confronti mutò in un istante.
Non so perché ma rivelarle tutto, benché in pochissime parole, quella sera mi venne spontaneo. E fu anche liberatorio.
Rimase però sconvolta quando le feci capire che a Marco non avrei detto nulla, sebbene fosse per quello che ero originariamente venuto.
Era troppo tardi ormai. E se anche si fosse interessato a me, lo avrebbe fatto mosso da compassione, come sua madre quando la incontrai la prima volta. Non per altro.
Non potevo certamente sapere che quella conversazione avrebbe portato a ciò sarebbe successo qualche ora dopo.
Poco dopo la mezzanotte, Marco si presentò da me in albergo con un’espressione devastata in viso. Capii subito, ancora prima che me lo dicesse, che aveva parlato con Anna. E che se era lì, era perché lei lo aveva convinto a venire a parlarmi.
Quella sera, con parecchi anni di ritardo, diventai davvero padre.
E per la prima volta, probabilmente, riuscimmo a parlare davvero. Ad ascoltarci.
Mi raccontò di lui, di cosa era realmente successo con Anna. Non ci furono paternali quella sera da parte mia. Non ero nella posizione di farlo, contrariamente a quanto si potrebbe pensare. Perché il suo tradimento non era nemmeno lontanamente comparabile ai miei. Lui aveva sbagliato, ma senza reale intenzione. Io invece l’avevo sempre fatto con consapevolezza.
Soprattutto, a differenza mia, lui amava profondamente Anna, e non riusciva a perdonarsi per averle fatto male.
Mi disse anche di aver conosciuto Franco, anche se il loro rapporto non era idilliaco. Quel mio secondo figlio, secondo Marco, era la mia fotocopia. Non mi stupii dunque che non andassero d’accordo.
Parlammo per ore. Ci abbracciamo - cosa che non ho probabilmente fatto mai con lui prima di quella sera.
Facemmo il primo passo.
La strada per ricucire le ferite - o perlomeno provarci - era ancora lunga, ma lo step più difficile lo avevamo superato. E tutto per merito di quella ragazza che oggi è diventata mia nuora.
Quella ragazza vestita di bianco intenta a ballare con il maresciallo sulla pista di fronte a me, mentre con loro girano sulle note di un valzer anche altri due ballerini: Elisa e Marco.
Poche ore fa, mio figlio si è finalmente sposato. Con la donna giusta. Con la sua Anna. E io non posso che osservarli volteggiare felici sulle note della festa dedicata a loro.
Anna sta sorridendo tra le braccia del maresciallo, che lei realmente considera un padre, come ho avuto modo di scoprire col tempo. E vedere la gioia di tutti i presenti mi fa capire quanto questi due esseri umani siano speciali. Come il loro impatto sulla vita della gente abbia fatto e faccia la differenza. E io ne so qualcosa in prima persona.
Non ho mai ringraziato sufficientemente Anna per quello che ha fatto per me e mio figlio. Nonostante dopo quel giorno io abbia fortunatamente avuto modo più volte di vederla.
Ci era voluto del tempo perché la sua strada e quella di mio figlio tornassero a incrociarsi, fino a portarli qui.
Negli anni passati, dopo l’incidente in cui aveva quasi perso la vita, le cose tra lei e Marco avevano preso a migliorare. Diventarono ben presto uno la medicina dell’altro, nonostante il dolore che si erano procurati l’un l’altra. E insieme, senza rendersene conto, si curarono vicendevolmente le ferite, fino a guarire.
Mentre a tutti andavano ripetendo di essere solo amici, era evidente che invece non lo fossero. Ma nonostante glielo si facesse notare, testardi, continuavano a ripetersi quella bugia.
Io smisi di intromettermi tra loro, di evidenziare che gli amici non si comportano così come facevano loro, soltanto quando avevo scoperto che il tumore era tornato.
Non ero impreparato, sapevo che poteva succedere e sfortunatamente era successo. Ma non ero più solo. Avevo accanto a me entrambi i miei figli. Non era idilliaco il mio mondo, ma era perfetto a modo suo.
A trovarmi, nel periodo di cure, veniva spesso anche Anna. Per quanto indecifrabile, in quel periodo presi a capire più cose di lei. Prima fra tutte che la sua storia con quel nuovo ragazzo che aveva avuto dopo mio figlio non era durata. E non molto dopo che era ancora innamorata di Marco, anche se non voleva ammetterlo.
Con ragione, del resto. Non sono mai stato vittima di un tradimento, sempre e solo carnefice, ma ho visto il dolore che può arrecare, indipendentemente dal motivo e dall’intenzionalità del gesto. E so che anche il dolore, nella vita, serve.
Serve a capire quali sono le cose importanti, quali sono le persone di cui non puoi fare a meno. Ed è servito anche a lei.
Tutto è divenuto ancora più chiaro quando ha smesso di venire a trovarmi insieme a mio figlio. Marco aveva allora iniziato a frequentare una nuova ragazza, nel tentativo di lasciarsi il passato alle spalle. Ma non la portò mai con sé, non la conobbi mai. Lì capii che lei - Anna - aveva capito cosa voleva. Chi voleva. Ed era solo questione di tempo perché se ne rendesse conto anche mio figlio. Perché era lampante come quella nuova storia anche per lui non avesse le giuste fondamenta. Come fosse un modo per cercare di dimenticare cosa volesse il suo cuore. Ma il cuore non accetta imposizioni, e batte, batte, finché non ottiene di essere ascoltato.
Non fui stupito di scoprire che erano tornati insieme, poco tempo dopo. E che sarebbero finalmente convolati a nozze a breve.
“Le va di ballare con me?”
La voce melodiosa di mia nuora mi riporta al presente, nella sala dove si sta celebrando l’amore che la lega a mio figlio. Non mi ero reso conto di essere rimasto solo con i miei pensieri, finché non mi ha interpellato.
Accetto la mano offertami con gioia e sollievo. Non ho più le forze di un tempo, la malattia mi sta lentamente consumando, ma non potrei mai rifiutarle un ballo, dopo tutto quello che ha fatto quel giorno, contro ogni logica, perché non era tenuta ad aiutare mio figlio, né tanto meno me.
Ma l’amore non è logico. Ci ho messo una vita a capirlo, perché io invece ho sempre cercato di spiegare ogni fenomeno con razionalità, di dare una forma all’inconscio. Senza rendermi conto che l’amore è il più complesso dei sentimenti, e proprio per questo non lascia scampo, quando è vero.
Ed è altrettanto vero che amare ci priva completamente di ogni difesa, ci rende vulnerabili. Ma non sempre è una debolezza.
Ma non l’ho imparato dai libri. L’ho imparato osservando mio figlio e mia nuora.
Che si sono amati fino a farsi male.
E si sono amati fino a curarsi.
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Voices
FanfictionLa storia di Anna e Marco, raccontata dalle voci dei personaggi intorno a loro, che ci diranno anche qualcosa in più su di sé.