SOULMATES
"A soulmate is the one person whose love is powerful enough to motivate you to meet your soul,
to do the emotional work of self-discovery, of awakening."
Kenny LogginsNon avevo mai capito cosa fosse un’anima gemella.
Pensavo fosse qualcosa che esisteva solo nei libri, nelle canzoni, nelle poesie. Qualcosa creato per sopperire all’imperfezione della realtà.
Non ci credevo, perché nella mia vita non avevo davvero avuto esempi che ne provassero l’effettiva esistenza. Semmai, il contrario.
I miei genitori, di sicuro, non lo sono.
Zio Nino mi ha raccontato degli inizi, delle difficoltà di mio padre di esprimere i suoi sentimenti per mia madre, le incomprensioni e tutto il resto, ma alla fine sembravano aver trovato un punto d’incontro. Insomma, il matrimonio sembrava andare benissimo.
È normale per due caratteri forti - e due teste dure soprattutto – non andare sempre d’accordo, non riuscire a parlarsi, come invece si dovrebbe fare.
Mio padre non è un uomo semplice. Si è sempre difeso, nascosto, dietro la sua divisa. Quella che è stata sempre una costante nella sua vita, la sua certezza. Un capitano prima, un maggiore poi, un colonnello ora. Una divisa che anno dopo anno è pesata sempre di più, a livello di responsabilità e sulla sua vita famigliare.
Quando ero piccola era poco a casa. Cercava di esserci, ma il suo lavoro non è un lavoro come gli altri e il suo dovere è sempre venuto prima di tutto, anche della famiglia. Non è bastato l’impegno a tenere insieme i pezzi di una maglia che piano piano si è sfilacciata, lasciando entrare tra i buchi della stoffa una nuova luce, una nuova esistenza.
L’incanto infatti si è rotto tempo dopo, quando le cose non dette sono diventate troppe. Avevo 15 anni quando mia madre ha rivelato di avere un altro uomo, e di non volerne più sapere niente di noi. Nemmeno di me, sua figlia.
Era a suo dire stanca di come le cose si erano andate dipanando nella sua vita e riteneva che in fondo avesse sempre avuto ragione mia nonna, la quale le aveva sempre detto che una vita accanto a mio padre sarebbe stata noiosa e logorante per lei. E che quella non era la vita che voleva, in cui tutto era diventato un peso per lei, perfino io.
Così, se n’è andata.
Inutile dire che sia stato devastante, sia per me che per papà, e anche tra noi due qualcosa si è inevitabilmente rotto dopo quella sera.
Per giorni mio padre non ha proferito parola. Non con me perlomeno. L’ho sentito qualche volta al telefono con zio Nino, raccontargli come non sapesse cosa fare.
Non l’ho nemmeno mai visto piangere in quei giorni. Non di fronte a me.
Solo una notte, qualche settimana dopo che mia madre se ne è andata, l'ho sentito e visto piangere. Anche se lui non lo sa.
Era in camera sua con la foto del matrimonio in mano, ripeteva con un fil di voce “Dove ho sbagliato? Cosa ho sbagliato?”
Ma il mattino seguente tutto è tornato come prima, con lui che non parlava del fatto che la mamma se ne fosse andata, che non mi chiedeva come stessi. Non ci siamo nemmeno mai abbracciati per darci sostegno, nel momento in cui tutto è crollato come un castello di carte per uno sbuffo d’aria.
E lì, ho capito che è tutta un’illusione. Ho capito che l’amore vero non esiste. Che l’anima gemella non esiste. Che il rapporto perfetto tra padre e figlia, quello che si legge nelle favole o si vede nei film, non esiste.
E ne ero certa, allora.
Perché io sembravo una figlia modello, ma non lo ero. Come mia madre sembrava una donna perfetta, e non lo era. Papà questa cosa l’ha sempre vista, e seppur non sempre volontariamente, me l’ha fatta pesare. Le somiglio, è palese, non solo per l’aspetto fisico, ma soprattutto nel commettere errori su errori e disfare la vita degli altri perché insoddisfatta della mia.
Forse ho imparato da lei ad essere così senza accorgermene, in fondo stavo sempre con lei a casa e poco con mio padre, che era sempre in caserma.
Forse sarei diventata un’altra persona se fossero stati entrambi presenti nei momenti più importanti della mia vita, nei riti di passaggio e in quella fase delicata che è la crescita.
E invece sono diventata adulta a quindici anni. O perlomeno ci ho provato. Perché evidentemente ho fallito anche in quello e mentre pensavo di avere le redini della mia vita in mano, in realtà ero solo alla ricerca di attenzione da mio padre.
Certo non volevo che i miei gesti e le mie azioni portassero a cosa hanno portato, non volevo volontariamente rovinare la vita di chi mi stava attorno, come invece mia madre aveva fatto. A lei non era importato, a me invece importava.
Volevo solo che mio padre mi capisse, o semplicemente ascoltasse. Che mi amasse. Con i miei mille difetti e cicatrici. Che mi vedesse come Valentina, sua figlia, e non come la copia di mia madre.
Nel vano tentativo di crescere in fretta e mostrarmi pronta per cosa il fato aveva messo sulla mia strada, la realtà mi ha invece schiacciata senza preavviso e mi sono trovata sopraffatta, senza un appiglio a cui aggrapparmi. Senza la forza necessaria a tirare avanti sul serio.
Mi sono trascinata per tanto tempo in un purgatorio di difficoltà, tentando disperatamente di raggiungere mio padre. Senza risultati. Perché lui si era chiuso nel suo dolore e si era buttato sul lavoro, relegandomi allo sfondo. Non lo aveva fatto con cattiveria, ne ero consapevole allora e ne sono certa ora. Ma dopo che mamma se n’è andata, ha iniziato a darmi per scontato. Ha continuato a considerarmi la figlia perfetta, quella che è sempre stata la prima della classe, che avrebbe portato avanti con onore il nome della famiglia Anceschi. Non aveva provato a guardare oltre la facciata. A chiedersi se veramente non ero – come lui – cambiata dopo la partenza della mamma. E quando se ne è accorto, era troppo tardi. Ero diventata come lei. Lo avevo deluso, come aveva fatto lei.
Al termine del liceo, quattro lunghi anni in cui ho cercato di tenere duro e di attirare l’attenzione di mio padre cercando di compiacerlo per farmi notare, non sapevo cosa fare del mio futuro. E non l’ho saputo per molto tempo.
I miei risultati scolastici erano sempre stati accolti bene da papà e così – più per lui che per me – mi sono lanciata nell’avventura di studiare giurisprudenza come aveva fatto lui – e come aveva fatto mamma.
Non è stato facile, ma durante il periodo universitario ho trovato amici e colleghi su cui contare. Con cui provare a vivere in maniera più leggera la mia vita. E insieme a queste nuove amicizie, accanto a me c’era ancora la mia roccia, la mia migliore amica sin dalle scuole medie, Flaminia.
Sempre presente, nel bene e nel male. Una sorella praticamente, anche se non di sangue. Lei sapeva tutto di me.
Mi conosceva come nessun altro. E sapeva che stavo studiando qualcosa che non mi appassionava, che lo facevo solo per compiacere mio padre, per ottenere - anche solo per la durata di un attimo fuggente – la sua attenzione.
Aveva provato a spronarmi affinché dicessi la verità a papà. Perché meritavo di essere felice e fare qualcosa che piacesse a me, come aveva deciso di fare lei. Ma i suoi tentativi erano stati vani, perché io continuavo a sperare che papà mi notasse, prima o poi. Col tempo aveva smesso di cercare di farmi ragionare, e alla fine ha finito per compiacere me che compiacevo mio padre. Andava bene così. O almeno questo mi ripetevo.
Dopo la laurea avevo provato a tentare di seguire la strada su cui lui mi aveva indirizzata, per renderlo orgoglioso almeno di quello, e invece ho fallito.
Lì ho capito che non ero cresciuta. Che non ero matura come pensavo. Che non ero in grado, esattamente come quando avevo quindici anni, di affrontare nuovamente la faccia delusa di mio padre. Non ero pronta ad affrontare la realtà dei fatti, ossia che in fondo lui aveva sempre avuto ragione, sebbene non me lo avesse mai detto apertamente: io ero come mia madre.
Per questo, quando sono stata bocciata al test per diventare magistrato, ho preferito mentirgli dicendo che invece lo avevo passato. E non avevo saputo aggiustare la mia vita, decidere per me in nessun modo, neanche perseguendo quella strada che avrebbe dovuto riportarmi da papà e che invece mi ha fatta smarrire.
Per mesi ho portato avanti quella bufala. Per mesi ho cercato di prendere tempo. Per mesi mi sono lasciata andare a una vita di eccessi. Che hanno fatto più male a mio padre di quanto forse non avrebbe fatto dirgli subito la verità.
Perché ho iniziato a combinarne una dietro l’altra, ubriacandomi quasi tutte le sere, mettendo a rischio non solo la mia vita, ma anche il buon nome della famiglia e la vita degli altri. Ma in quel momento nulla mi ha fermato.
Era più facile affrontare la vita con l’aiuto dell’alcol, perché con quello la mente si annebbiava e riuscivo finalmente a non pensare a come avessi buttato il mio futuro alle ortiche. Su come non stessi riuscendo a rendere orgoglioso mio padre, e non avessi saputo scegliere per me stessa.
E in quei mesi di assoluta follia, ho finito per commettere l’errore più grande della mia vita.
Nella mia disperata ricerca di qualcuno che mi capisse - e in quel momento non ci riusciva nemmeno Flaminia, che aveva preferito assecondare il mio delirio invece che affrontare il fatto che stessi male come avevamo fatto insieme in passato – ho trovato rifugio e conforto tra le braccia di Lorenzo, uno dei miei più cari amici dell’università, ma anche e purtroppo fidanzato di Flaminia.
Volevo sentirmi amata, volevo capire se il problema - perché le cose attorno a me erano sempre andate male - in fondo non fossi io.
Lorenzo si è trovato lì con me quasi per caso. Parlava con me, mi ascoltava, mi consolava. Ma giorno dopo giorno, ci siamo avvicinati, più di quanto avremmo dovuto. E una sera, in cui avevo nuovamente bevuto troppo, sopraffatta dai dubbi, mi ero lasciata accogliere dalle braccia di Lorenzo e dalla notte di ‘amore’ che avrebbe inevitabilmente cambiato per sempre la mia vita e quella di Flaminia.
Ricordo di essere scappata via da casa di Lorenzo il giorno dopo, la testa mi faceva male, ma il cuore di più. Perché quella notte, quell’errore, mi sarebbe costato la perdita di una delle persone più importanti della mia vita, nel momento in cui la verità sarebbe venuta a galla. Perché sarebbe successo, e lo sapevo.
Per giorni ho tenuto nascosto cos’era successo. Non sapevo come dirlo a Flaminia, se dirlo a Flaminia. Sapevo non avrei rifatto l’errore, la colpa mi logorava dentro. Ma quando Lorenzo è venuto da me per dirmi che la voleva lasciare per mettersi con me, ho capito che non potevo più stare zitta. Perché ero veramente come mia madre, anche se non avevo volontariamente fatto cosa ho fatto. Non importava se avessi o meno sviluppato dei sentimenti per Lorenzo, non avrei mai potuto stare con lui, anche avesse lasciato Flaminia. Perché il rimorso mi avrebbe sempre logorato dentro, come è di fatto successo. Perché non era giusto.
E il rimorso non è andato via dopo che la verità è venuta a galla, ma si è moltiplicato.
Non c’è stata notte, per svariati lunghi mesi, in cui nei miei incubi, io non abbia rivisto in loop la sera dell’incidente in cui è morta Flaminia.
Notti in bianco, con gli occhi spalancati, perché ogni volta che li chiudevo mi rivedevo in auto con lei, mentre le raccontavo di come le avevo distrutto la vita. E poi lei che scendeva dall’auto, disperata e ferita, incurante dell’auto che sopraggiungeva e che per via della pioggia non fu in grado di arrestare in tempo la sua corsa.
Quella sera l’unica cosa che si fermò fu la sua vita.
Un incidente, così l’hanno classificato, ma io sapevo benissimo che la colpa era mia. E mi sono rigettata nella vita frenetica a base di alcol con lo scopo di alleviare il dolore, di dimenticare, invano.
Senza Flaminia non avevo più nessuno con cui confidarmi. Papà non mi è stato vicino più di tanto, anzi il rapporto tra noi si è incrinato ulteriormente. Una sera mi ha perfino fatto arrestare, perché lo avevo deluso, lo avevo messo in imbarazzo. La figlia di un colonnello trovata ubriaca alla guida.
Avevo toccato il fondo.
Qualche mese dopo la morte di Flaminia, sono arrivata a Spoleto. Dovevo restare un paio di giorni per accompagnare papà alla festa per i cinquant’anni di sacerdozio di Don Matteo, che io non conoscevo più di tanto a dire il vero, ma era un modo come un altro per compiacere mio padre. E rivedere zio Nino, che non riabbracciavo da molto tempo. Qualche giorno, e sarei tornata a Roma alla solita routine. Invece quella ‘gita’ ha cambiato tutto.
Perché a Spoleto ho trovato una nuova famiglia e finalmente sono cresciuta. E l’ho fatto quando dopo mesi, ho rivelato cosa mi logorava, cosa fosse andato storto.
Ho tenuto il segreto dietro la morte di Flaminia dentro di me fino a poco tempo fa, e quando ho deciso di rivelarlo, non l’ho fatto nemmeno per intero la prima volta, perché ero convinta che avrei perso quel poco di affetto che ero riuscita a ritagliarmi da quelle persone che avevo conosciuto da poco e a cui mi stavo affezionando.
Non sapevano, ed era l’unico modo affinché non mi giudicassero. Perché, se avessero scoperto la verità, avrebbero anche scoperto che persona orribile ero. Una che era andata a letto col fidanzato della sua migliore amica, morta per colpa sua.
Era meglio tacere, ricominciare da zero. Col tempo avrei accettato e dimenticato, mi dicevo.
E invece non era quello il modo di affrontare il problema, e me lo ha insegnato chi, un errore simile al mio, lo aveva compiuto. Non è cercando di vivere in un Purgatorio auto-imposto che si raggiungerà il perdono, il Paradiso.
Si deve accettare il fatto di essere umani, di poter commettere errori. Ma poi bisogna rialzarsi, bisogna saper chiedere perdono agli altri e a se stessi. Sembra facile a dirsi, ma non lo è. Solo quando si riesce a farlo, si ritorna a vivere.
Ci ho messo del tempo, ma alla fine ci sono riuscita anche io. Nel mentre però ho continuato a fare ‘errori’, anche in maniera consapevole per certi versi, e ho di nuovo rischiato di distruggere altri legami. Ma non sempre le ombre vincono sulla luce.
Al mio arrivo a Spoleto, non mi sono presentata bene. Ubriaca, ancora una volta, e con più scheletri nell’armadio di quanti riuscissi a contarne.
Poi è arrivata la doccia fredda - non quella con cui mi han fatto superare la sbornia - che si è palesata su mio padre alla scoperta dell’esame da magistrato che non ho superato. Sapevo di averlo deluso, non dimenticherò mai la sua faccia nel sentire la verità. Ma quel giorno ero anche arrabbiata. Dopo mesi a incanalare la rabbia, ero arrivata a esternarla nel peggior modo possibile: rinfacciando a mio padre di essere la colpa di quello che ero diventata e di odiarlo.
Non sapevo però che le nostre incomprensioni pesassero a tal punto su di lui da fargli venire un mezzo infarto. Non ero pronta a perdere anche lui. Il terrore che mi ha pervaso quando l’ho visto accasciato a terra non è spiegabile a parole. E non è andato via per molto tempo. Fuori mi sono sempre mostrata forte, ma ero solo l’ombra della ragazza che un tempo ero.
Qualche giorno dopo lui è tornato a Roma. Mi ha lasciato indietro, voleva spazio perché tutto era diventato troppo opprimente, e voleva che io mi prendessi del tempo per pensare a cosa stavo facendo. Perché era più facile per entrambi, ma soprattutto per lui. Perché ormai c’erano solo le macerie, e io non avevo nemmeno tentato di provare a ricostruire.
Quello che non mi spiegavo era perché lo zio Nino, nonostante avesse visto che disastro ero, avesse accettato di tenermi in casa sua. Cosa vedeva in me, che gli altri non vedevano. Ma lo zio Nino è così, quasi sempre incomprensibile a te, ma capace di leggerti come un libro aperto quando meno te lo aspetti.
Oltre a lui, Spoleto mi ha offerto due nuovi amici: il Capitano dei Carabinieri di Spoleto, Anna Olivieri, e il PM Marco Nardi.
Non sapevano niente di me, a parte alcuni dei miei fallimenti, eppure mi avevano aiutata senza pensarci due volte. Marco, soprattutto, almeno all’inizio, e poi anche Anna.
E poi c’era la signora Elisa, nuova compagna dello zio e madre di Anna. Mi hanno accolta nella loro famiglia, mi hanno resa partecipe della loro vita, senza chiedere né pretendere nulla.
Dopo molti anni, mi sono finalmente sentita di nuovo parte di una famiglia. Mi sono sentita accettata, pur con tutti i miei difetti. Certo, avevo ancora dei fantasmi da rivelare - oppure no - però per la prima volta sentivo di poter contare su chi mi stava attorno, quando sarei tornata a sbagliare avrei trovato qualcuno disposto ad aiutarmi. Non sarei stata sola.
Ho scoperto pian piano ciò che succedeva, in quel di Spoleto. E perché ci tenessero così tanto a darmi una mano: perché quelle persone mi capivano.
Sia Anna che Marco avevano avuto un rapporto complicato e travagliato con i propri genitori, per motivi anche gravi che ho scoperto in seguito.
La loro vita famigliare non era stata tutta rose e fiori, per cui sapevano bene cosa voleva dire trovarsi nella mia situazione, e di quanto fosse complicato tirarsene fuori.
Però c’era anche altro che li riguardava da vicino, che li legava, e che io non mi aspettavo.
Quando li ho visti insieme, all’inizio, mi sono detta che era evidente si piacessero parecchio, ma pensavo fosse tutto lì, che semplicemente il passo successivo non fosse ancora avvenuto.
Invece, con mia enorme sorpresa, durante una cena a casa di zio Nino mentre imparavamo a conoscerci meglio, erano stati proprio loro a rivelarmi che un paio di anni prima avrebbero dovuto sposarsi, e anche la ragione per cui il matrimonio era saltato. Un tradimento. Anzi, in realtà più di uno. Perché da una parte c’era una bugia, dall’altra la reazione alla bugia, che però aveva fatto più rumore.
Tuttavia, vedendoli insieme, avevo capito che per nessuno dei due era un cassetto chiuso la loro relazione, anzi. Poco importava che ci fosse stato anche quel Sergio, in mezzo a loro, per un bel po’.
Insomma, c’erano parecchie cose non dette tra loro, ma era evidente che il sentimento non si fosse mai del tutto spento.
Se però Marco era un libro aperto e avessi capito immediatamente quanto ancora fosse innamorato anche per sua stessa ammissione, Anna d’altro canto era difficilissima da decifrare. Non la capivo.
A tratti sembrava totalmente apatica, indifferente e cinica di fronte a qualsiasi cosa, altre volte invece la vedevo reagire con una passione fuori dal comune. Dava l’impressione che spesso si trattenesse, per qualche motivo, quasi avesse paura di qualcosa. E non capivo perché ‘rifiutasse' i sentimenti che provava, perché era evidente succedesse questo. Io avevo imparato poche cose nella vita fino a quel momento, ma una su tutte mi era chiara: i sentimenti non vanno mai ignorati, rinchiusi in un cassetto dentro di noi sperando svaniscano. Perché fa più male tenerseli dentro e cercare di rinviare un verdetto che non vogliamo avere, piuttosto che affrontare il dolore di un rifiuto. Perché ti logorano dentro i se e i ma, che accompagnano la scelta di ignorarli. E non andrai mai avanti se non accetti di provarli e di affrontarli, anche dovesse andare male.
Così ho deciso che se lei era testarda e non faceva alcunché per affrontare la realtà dei fatti e Marco aveva accettato tacitamente la cosa, era necessario dare una spintarella, come direbbe lo zio Nino – dopotutto sono la sua figlioccia. Perché ero certa che per loro ci fosse ancora modo di ricucire il legame.
Ho quindi spinto Marco a riprovarci, a riconquistarla. E mi sono ingegnata per farla ingelosire. “Se non ottieni una reazione nemmeno tramite i piani G, allora non è amore”, mi ha sempre detto lo zio Nino. E allora perché non testare la sua tesi con Anna e Marco?
Inutile dire che il piano ha funzionato meglio del previsto, perché Anna non si aspettava che lui potesse avvicinarsi a me. Non mi aveva visto come una minaccia, prima di quel momento. Perché nessun’altra avrebbe osato prendere il suo posto, lei ne era certa, sicura del proprio ascendente su Marco. E sul legame speciale che condividevano.
Il culmine del piano, il bacio che aveva visto tra me e Marco di ritorno dal campo da tennis, l’aveva resa furiosa. Era evidente che la situazione non le piacesse affatto, tanto che - sorprendentemente, a detta di Marco – il giorno dopo gli aveva confessato che non voleva che si allontanassero, che ci teneva a lui. Certo, non aveva apertamente detto di amarlo, ma era più di quanto ci si potesse aspettare da una di pochissime parole come Anna.
Per quanto probabilmente maldestro quel piano fosse, alla fine era riuscito brillantemente, perché Marco non aspettava altro che scoprire se ci potesse essere uno spiraglio di speranza da perseguire. E c’era eccome. Perché Anna non era indifferente, anzi. Sarebbe bastato poco, e tutto si sarebbe aggiustato.
Solo che il mio piano non teneva conto dell’esistenza di un piccolo – ma nel loro caso enorme – ostacolo che si era frapposto tra loro praticamente da sempre, e di cui io non ero a conoscenza. Un qualcosa di profondo e radicato che ha impedito al piano di trovare la giusta risoluzione.
Di quell'ostacolo ho scoperto solo quando ho rivelato allo zio Nino che me ne sarei andata, perché la mia breve relazione con Marco era finita e avevo bisogno di una pausa, di tornare da papà dopo che ci eravamo chiariti a seguito del suo ritorno a Spoleto qualche settimana prima.
La mattina dopo, lo zio mi ha accompagnata alla stazione. Era turbato, così gli avevo chiesto cosa avesse. Neanche a dirlo, era preoccupato per Anna, perché si era reso conto più che mai che lei e Marco si amassero, che secondo lui fosse anche successo qualcosa tra loro, ma lei si era messa come sempre sulla difensiva quando ne avevano parlato la sera prima, e lui non sapeva che fare. Il mio mezzo sorriso compiaciuto non lo aveva accolto bene, e a quel punto mi ha spiegato, senza scendere nei dettagli, che c’era un trauma nella vita di Anna, che spesso l’aveva bloccata dal lasciarsi guidare dal cuore.
E lì ho capito. Perché solo una cosa del genere può avere un impatto tanto grande sulla vita di una persona.
Ho scoperto così, quel giorno, che Anna aveva perso suo padre da bambina, quando si era suicidato perché ingiustamente accusato di appropriazione indebita.
Zio Nino mi ha spiegato che Elisa gli ha spesso raccontato del rapporto che legava lei e suo padre. Una storia come quelle dei film, di quelle a cui avevo smesso di credere. È difficile immaginare Anna da bambina con suo padre, tramite i ricordi riportati dallo zio. Se non altro, perché di quella bambina senza pensieri, preoccupazioni e piena di gioia di vivere, piena di leggerezza e sogni, quando l’ho conosciuta io non era rimasto più nulla.
È evidente che il trauma le ha cambiato per sempre la vita. Che anche lei, un po’ come me, ha recepito la dipartita del padre che amava più di ogni altra cosa, come un abbandono volontario, anche se tale non era. E sua madre Elisa dopo la morte dell’amato marito aveva reagito un po’ come mio padre, chiudendosi in se stessa, invece di condividere con lei e sua sorella il dolore di quel momento.
Si è sentita sola, incompresa, e ha reagito. Scegliendo per se stessa.
Prendendo, da quel momento, ogni decisione da sola. Senza lasciare a nessun altro lo spazio per agire diversamente.
Non significa che non abbia amato, anzi.
È evidente dal rapporto che ha con le persone attorno a sé quanto quel trauma l’abbia portata ad amare chi riusciva a restare, ad accettarla per com’è, profondamente, senza fuggire. A sviluppare un senso di protezione per gli altri, materno e paterno al contempo, per compensare ciò che a lei era mancato. Quasi come se il suo obiettivo nella vita, dopo la morte del padre, non fosse diventato solo quello di rendere giustizia – come mi aveva raccontato sua madre – ma anche evitare che il dolore che aveva provato lei potesse essere inferto ad altri.
Però nel suo particolare modo di amare, si è anche sempre posta un limite che non andava superato, perché farlo significava permettere a qualcuno di far vacillare le sue convinzioni, di fare breccia nel suo cuore e stravolgerle la vita. Avrebbe significato lasciarsi andare nuovamente a un amore incondizionato, come quello di una bambina per il proprio padre, rischiando che la storia ciclicamente si ripetesse dopo che aveva scelto per sé la strada che non avrebbe dovuto farla soffrire.
Per questo ha evitato per anni di cambiare direzione rispetto a quella intrapresa, così da evitare il rischio di ferirsi irrimediabilmente.
Poi però sul suo cammino è arrivato Marco e tutto questo, a lui, aveva permesso di iniziare a farlo.
Visto com’è andata, non sorprende capire perché dopo essersi perdonata e averlo perdonato per quanto accaduto tra loro, aveva paura a lasciarsi andare nuovamente a quel sentimento mai sopito. Non era pronta a mettere a repentaglio l’equilibrio che sembravano aver raggiunto.
Così lo ha spinto via con tutte le sue forze, nonostante ne fosse ancora perdutamente innamorata.
Quando la storia con Sergio è giunta al capolinea, la mattina in cui invece che ricongiungersi a lei e sua figlia ha preferito la fuga, Anna ha chiuso i conti con le proprie colpe. Ha tirato le somme, ha capito che in fondo aveva ragione chi l’aveva messa sempre in guardia da Sergio, e chi le aveva sempre detto che è il cuore che ci dice chi sono veramente le persone attorno a noi. Chi merita di restarci affianco.
Ma la paura era più forte, ancora.
Era come bloccata su un’altalena di indecisione e non poteva fermarla, perché non arrivava con i piedi a terra. Oscillava perennemente tra il tirare dritto e fingere che non ci fosse più niente con Marco rifugiandosi dietro la bugia del “siamo solo amici”, e la voglia disperata di gettarsi tra le sue braccia e non lasciarlo andare più, anche si fossero rifatti male.
Poi però mi sono intromessa io. E lei ha fatto un passo indietro. L’altalena si è fermata di colpo, come quando da piccoli arriva il momento di tornare a casa e tuo papà o tua mamma la bloccano, facendoti scendere.
Quando ha iniziato a vedermi con Marco, a vedere Marco provare ad andare avanti con la sua vita, Anna si è fermata, ha riavvolto il nastro e pensato a tutto quello che lui ha vissuto contemporaneamente a lei e con lei. E lì ha pensato, quasi inspiegabilmente, di non essere abbastanza per Marco. Che forse per il bene di entrambi, era giusto non cambiare quello che c’era. Dare definizione a quel sentimento sarebbe stato pericoloso, e forse sarebbe stato meglio per tutti e due essere soltanto amici ed esserci l’uno per l’altra, piuttosto che provarci e finire per perdersi, quella seconda volta magari per sempre.
Quando ci siamo incrociate sul pianerottolo, la sera che ho deciso di tornarmene a Roma per un po’, ho lasciato che la mia visione da spettatrice esterna e poco informata sulla loro storia prendesse il sopravvento. Perché io di loro, del loro trascorso conoscevo - e conosco - solo la superficie esterna, e per sentito dire. Dai diretti interessati ho saputo poco, e perlopiù da Marco. L’altra campana, come si suol dire, non l’ho mai ascoltata. Non le avevo mai chiesto nulla, e dalla sua voce avevo ascoltato solo il rimorso di non essere stata sincera, a causa del quale aveva rovinato tutto. Ma io non avevo capito che si ritenesse l’unica responsabile del mancato matrimonio. Sì, gli aveva mentito, ma anche Marco aveva le sue colpe. Non mi ero resa conto che Anna era cambiata, solo che io - da spettatrice esterna appunto - non potevo saperlo.
Ed ancor più evidentemente, in quel momento, non avevo capito niente di loro. E ho sbagliato a dirle quelle cose, soprattutto perché non avevo diritto di giudicare senza sapere, soprattutto perché lei con me non lo aveva mai fatto.
Come mi ha detto lei stessa, non erano affari miei. E ho capito dopo che non bisogna per forza dipendere da un uomo per starci insieme. Che certe decisioni vanno comunque prese da soli, perché non tutto si può fare in due.
Se non aveva scelto, era solo perché c’ero io.
Io, che mi ero frapposta tra lei e l’uomo che amava, e si era convinta che fosse tardi per poterlo avere al suo fianco come avrebbe voluto. Che dentro di sé tutte quelle cose che le avevo rinfacciato, le pensava già. Erano parte delle mille domande, dei mille dubbi che la tormentavano. Forse sentirsele dire è anche peggio. Perché un conto è pensarle tu, un conto è capire che anche altri, vedendoti, pensano quello.
Poco importava se nel momento in cui gliele ho dette, io e Marco già non stavamo più insieme. Faceva male comunque sapere che forse un fondo di verità in quelle parole c’era.
Consapevole di non poter avere cosa il cuore le diceva perché c’ero io, per la sua testa non era facile trovare la forza di restare, a quel prezzo. Per qualche tempo aveva messo in attesa Lucio, nella speranza che le cose diventassero più chiare o che riuscisse a scegliere una volta per tutte la direzione da prendere.
Sperando anche in un salvagente, in una mano tesa ad aiutarla, che forse però non sarebbe mai arrivata. Perché una sola persona riusciva a farla riflettere e scegliere quando era in difficoltà, ma quella persona era proprio al centro dei suoi stessi dubbi. E, paradossalmente, da quel che ne sapevo non aveva fatto altro che alimentarli.
E se Anna da un lato era tormentata e indecisa, dall’altra Marco cosa voleva lo ha sempre saputo. Per Anna avrebbe messo sempre se stesso in secondo piano.
Però come lei, aveva sempre avuto bisogno di qualcuno che lo spronasse, che gli desse quella spintarella per fare la sua mossa. Anche quando e se le cose poi dopo fossero andate male. Perché Marco non voleva bloccarla, impedirle di fare carriera, ma non voleva neanche lasciarla andare, quindi se da un lato la spingeva ad andare perché era giusto così, dall’altro continuava a trattenerla con una gelosia impossibile da nascondere, e chiedendole di restare senza nemmeno accorgersene.
Erano fermi in una impasse da cui da soli non sarebbero mai potuto uscire. Perché la paura ti blocca, ti paralizza. È forse l’unico sentimento che può fermare l’amore. Anche più dell’odio. Perché se odi qualcosa, è perché quella cosa in un qualche modo ti ha toccato, ha smosso qualcosa in te. E l’odio può spingerti a reagire. La paura invece no. Lei ferma le tue azioni. Ti fa fare un passo indietro.
Ma c’è il modo di capire se, con la giusta spinta, quella paura paralizzante può essere superata. E non v’era dubbio che, nel loro caso, qualcosa si potesse ancora fare.
Perché Marco non sa fingere.
Non se si tratta di Anna.
Perché per lei non c’è niente che non farebbe. Perfino accettare di farsi ferire volontariamente.
Perché lo ha sempre fatto, le ha sempre permesso di trattarlo male continuamente - aveva di certo le sue ragioni - senza lamentarsi mai.
E tutto per un unico fine: poter essere ancora parte della sua vita, in qualsiasi modo. Come amico, come collega, come partner sportivo, compagno di gelati, come confidente a cui parlare dell’uomo con cui pensava di costruire il suo futuro.
Non si è lasciato fermare neanche da quello, dal sentirla parlare di Sergio, dei suoi progetti futuri con lui e la piccola Ines. Forse è anche per questo che la sera che era preoccupato per lei ho sbottato. Perché se non capiva lui il male che lei gli provocava e non faceva niente per difendersi da esso, non c’era persona che standogli accanto avrebbe potuto farlo. E allora c’era bisogno che venisse messo di fronte alla realtà dei fatti.
Perché ciò che faceva per lei non era nemmeno forzato, poiché lei lo ha sempre voluto nella sua vita tanto quanto lui. Non c’è mai stato il rischio che lei rifiutasse la sua presenza, né che volesse realmente andar via. E proprio per questo, standole accanto si faceva più male che bene. Ma l’amore non ha una logica. Non ti dice che se tocchi la fiamma, ti bruci. Anzi, ti suggerisce di lasciarti accogliere e scaldare da quel calore invitante quando hai freddo, seppur a volte effimero e illusorio.
E Marco… quella fiamma l’ha sempre cercata, anche quando abbiamo iniziato a frequentarci.
Stupida io a ostinarmi, dopotutto. Lo sapevo sin dall’inizio che si amavano, e mettermi in mezzo non è stata la mia idea più brillante.
Sapevo cosa rappresentassero l’una per l’altro. Avevo avuto modo di vedere cosa erano disposti a fare l’una per l’altro e viceversa. Sapevo che Marco, pur conscio che lei potesse ancora provare qualcosa per lui dopo il “piano G”, aveva preferito non azzardare l’ultima mossa, per non farsi male, sebbene sul suo viso fosse chiaro che gli costava molto quella decisione. Anzi, troppo.
Non c’è mai stato niente da fare, come mi ha detto Marco stesso, perché ci ha provato a non pensarla, a rifarsi una vita. So che non mi ha presa in giro, che si è impegnato e che comunque mi vuole bene. Solo, non è mai stato amore, e l’avevo capito anche senza che si obbligasse a dirmi un ‘Ti amo’ che non sentiva. Che ha mormorato solo per non deludermi, per autoconvincersi che doveva dimenticarla.
Ma è stato inutile, perché non si sfugge a un amore così.
Perché si sono fatti male a vicenda, eppure non si sono mai separati davvero.
Perché il filo rosso che li lega non si è mai spezzato. Neanche dopo il fulmine a ciel sereno che li ha colpiti. In quel frangente si sono separati in due entità distinte, come era successo agli Androgini del mito greco riportato da Platone nel Simposio, ma come quegli stessi esseri, anche loro hanno cercato sempre di ritrovare la loro metà perduta. Senza nemmeno accorgersene, perché cercarsi era la cosa più naturale del mondo, per loro due.
E di questo si sono sempre resi conto tutti, l’ho visto con i miei stessi occhi quando c’è stato quel malinteso con zio Nino.
Sì, perché ho capito in fretta il motivo per cui Marco non voleva rivelare di noi due: non voleva legarsi, voleva restasse una cosa segreta, proprio per evitare di fare troppi danni una volta finita.
Perché sarebbe finita, e lo sapevo, anche se avevo sperato di no.
Paradossalmente, col senno di poi, non so nemmeno se sia veramente iniziata. C’è stato qualcosa tra noi, che non era amore, ma non era nemmeno un rapporto di semplice amicizia.
Era qualcosa che stava a metà, nel limbo. Qualcosa di cui in quel momento avevamo bisogno entrambi, per dimenticare il male che stavamo provando. Per superare insieme un Purgatorio come quello dantesco, in cui ci eravamo incontrati per caso, con storie diverse alle spalle e la stessa voglia di raggiungere la pace con noi stessi e con chi ci circondava.
E così ci eravamo imbarcati in quella storia, all’inizio segreta, dove l’unica ad essere a conoscenza della verità e ad aiutarci era, contro ogni previsione, proprio Anna.
Non ho sempre creduto nella buona fede dei suoi consigli, anzi quando le cose hanno iniziato a precipitare ho pensato mi stesse volutamente sabotando, e avrei forse dovuto dare retta a quella voce nella mia testa che mi diceva fosse un segnale chiaro di cosa provasse per Marco, un segnale da non trascurare. Nella mia ubriachezza di quella sera, glielo avevo pure confessato, che avevo capito lo amasse ancora. Ma quando stai curando le tue di ferite, non pensi a quelle degli altri. L’avevo accusata di essere un’ipocrita, perché era più facile dare a lei la colpa del mio ennesimo errore. Ma Anna ha iniziato veramente a comportarsi da amica con me. Lo era stata anche in quel momento, perché mi aveva teso la mano che io avevo rifiutato, nel tentativo di aiutarmi. Non solo riguardo alla storia con Marco, ma anche e soprattutto con mio padre.
Quasi si fosse anche arresa a non essere più la protagonista della storia di Marco. E come si sbagliava…
Di tutta quella situazione, mi spiace non averla ringraziata abbastanza per quanto fatto con mio padre. Perché per proteggermi si è presa una colpa non da poco e che non aveva, affinché il rinnovato rapporto con papà non si rompesse nuovamente. Conscia peraltro di non avere lasciato in lui un buon ricordo dopo che si erano incontrati mesi prima, per via della sua storia con Sergio, e che quella falsa ammissione avrebbe peggiorato la sua reputazione agli occhi di un superiore.
Eppure non ha esitato.
Conosceva i miei precedenti, sapeva cosa sarebbe successo se mio padre avesse scoperto che l’incidente era dovuto al mio aver bevuto di nuovo, perché stavo male. E credo abbia capito benissimo anche cosa ci fosse dietro al mio incontro con Lorenzo, sebbene io non le avessi detto praticamente nulla. Ha intuito chi fosse, ha compreso le mie colpe, eppure non mi ha giudicata. Non mi ha forzata a parlare se non me la sentivo. Anzi, mi ha perfino aiutata e consigliata sulla sua esperienza personale. Sacrificando un’altra parte del suo amore per non ferire me, anche se me lo sarei in parte meritato.
E ho capito in quel momento cosa intendesse dire Marco quando ha affermato che Anna è una che si spende al cento per cento per tutti, che darebbe il suo aiuto anche al suo peggior nemico.
Che di fronte a qualcuno che tende un mano alla ricerca di aiuto, lei e i suoi sentimenti passano in secondo piano.
Lo aveva fatto anche con lui in uno dei momenti più bui della loro storia.
Perché lo aveva odiato, lo aveva allontanato ed escluso, ma lo conosceva meglio di chiunque altro e quando lui aveva avuto bisogno di aiuto con suo padre, lei non aveva esitato. E il loro ritrovato rapporto si era ricucito grazie a lei.
Lei che aveva messo da parte il rancore perché in quel momento non era la cosa giusta da provare. Che gli aveva donato il suo amore anche se faceva male e sarebbe stato più facile ignorarlo.
Nonostante tutto, quel filo rosso tra loro non si era spezzato, e lo ritrovavano negli istanti più difficili quanto profondi.
L’amore, quello vero, si vede anche in questo.
Ecco perché tassello dopo tassello, riguardando indietro ora, ho capito di aver imparato più in quei pochi mesi a Spoleto sull’amore di quanto non abbia mai fatto in tutta la mia vita.
Mi è bastato osservare, e in alcuni casi intromettermi nella vita di due persone a me fino a quel momento sconosciute per capire che esiste l’amore vero, che esistono le anime gemelle. Perché loro lo erano, anche quando non stavano insieme, anche quando la carriera si era messa tra loro, quando Sergio si era intromesso tra loro, quando io mi ero messa tra loro.
Nessuno di noi è mai stato un vero ostacolo lungo il loro percorso. Eravamo delle tappe, inevitabili, della loro storia, ma destinate a restare tali. Dei momenti di sosta, lungo un cammino più lungo, alla cui meta si sarebbero ritrovati da soli, uno di fronte all’altra.
Nessuno dei due forse lo aveva capito fino a quando non mi sono fatta indietro, perché finché c’ero stata io, Anna si era messa da parte e Marco aveva accettato gli eventi per come erano, convinti che ormai non ci fosse altra via d’uscita.
La questione Ines però aveva scompigliato le carte.
Vederli tutti e tre insieme quella sera, seduti a tavola a cenare, mi aveva restituito un’immagine di famiglia che mi ha stretto il cuore. E un po’ ho anche invidiato, sentendone la mancanza nella mia vita.
Pur non essendolo una famiglia ‘vera’, quel quadretto ne restituiva un’immagine tale da non lasciare spazio a dubbi: nei fatti era come se lo fossero già. Perché loro due si sono sempre comportati da genitori senza nemmeno accorgersene. È sempre venuto loro naturale alternarsi nel prendersi cura insieme di quella bambina, come se fosse la cosa più normale del mondo. E io li conoscevo da poco meno di un anno, sapevo di loro a malapena lo strato più esterno della loro vita.
Declinai l’invito a fermarmi, con una scusa che poi era vera, perché ero davvero stanca. Ma non avrei avuto – come è successo - il cuore di mettermi in mezzo, di rovinare quel quadro, in cui una pennellata diversa, ulteriore, avrebbe rovinato tutto. Avevo la sensazione, però, che non sarebbe stata l’ultima volta che li avrei visti insieme. E che quella non fosse neanche la prima volta che si riunissero tutti e tre a condividere la propria giornata.
Nei giorni successivi, Marco ha dimenticato ogni altra cosa che non fossero Anna ed Ines. Dal portare la piccola agli allenamenti e alle partite, al sostenere Anna in quella situazione particolare, comportandosi come un marito e un padre premuroso. Nonostante io gli avessi fatto notare più volte che non era esattamente così che doveva essere. Che il suo - il loro - comportamento non era normale.
Perché quello che stava succedendo era bellissimo, un gesto nobile senz’altro, ma Ines non era sua figlia e Anna non era sua moglie. Non stava scritto da nessuna parte, che lui dovesse esserci per forza e in modo così assiduo. Che la decisione spettava ad Anna, quindi lui con la bambina cosa c’entrava?
Non gli volevo imporre di non fare certe cose, volevo che ne prendesse coscienza.
Perché quegli istanti ‘rubati’ a noi come coppia, li stava destinando a una vita che avrebbe voluto, ma che aveva paura a prendersi. Non mi stava prendendo in giro volutamente, ma apparentemente lo sembrava, preferendo crogiolarsi in una parvenza di realtà finché sarebbe durata, invece che lottare per averla. Preferendo ‘fingere' che tra me e lui ci fosse qualcosa di più di quello che c’era, e che gli bastava essere parte di quel mondo intricato diviso tra me e loro. Tra me e lei.
Però quel mondo per me non era abbastanza. E non ero arrabbiata o delusa che nonostante tutto avesse scelto lei. Perché sapevo lo avrebbe fatto.
Anche se un barlume di speranza lo hai sempre. E Marco mi ha sempre trattato come nessuno aveva mai fatto e quelle sue premure mi avevano fatto credere di aver trovato cosa andavo cercando. Insomma, capisco bene perché Anna se ne è innamorata.
Ma se lui si sarebbe accontentato di essere felice, ma non felice davvero, io invece quel tipo di amore lo cercavo. E avrei continuato a cercarlo. A lui sarebbe bastato un niente per averlo.
E lì, per me è diventato troppo continuare a fingere.
Il ritorno di Sergio mi ha fatto comprendere appieno il sentimento di Marco per Anna.
Perché da quando lui si era ripresentato a Spoleto, Marco aveva iniziato a essere sempre al limite, costantemente vigile e pronto a scattare al minimo segnale di pericolo. Ossia, al minimo accenno che Sergio potesse riacquisire un posto nella vita di Anna.
Io ero certa che questo non sarebbe successo, perché avevo capito quanto lei fosse ancora innamorata del PM, ma lui sembrava non rendersene conto, accecato com’era dalla gelosia.
Avevo tentato inutilmente di sostituirmi a lei nella sua vita. Avevo provato di tutto per allontanarli, per provare a diventare la fonte della felicità di Marco, affinché andasse avanti con la sua vita, affinché non si ferisse ancora. Perché non lo meritava.
Ogni tentativo da parte mia di allontanarli però era stato vano.
Come la sera del ‘fidanzamento’ di zio Nino con Elisa.
Tutti, tutti, a Spoleto facevano il tifo per loro due, a partire ovviamente da zio Nino e dalla signora Elisa, la mamma di Anna.
Ogni più piccola cosa in quella serata di preparativi riportava a loro due, a quando stavano insieme. Perfino l’abito da sposa che mi aveva colpito, la signora Elisa l’aveva escluso perché assomigliava a quello che indossava Anna quando si era quasi sposata con Marco. Il tutto enfatizzato dall’esclamazione che fosse ancora profondamente doloroso pensare a quel giorno, naturalmente. Lui, seduto più indietro insieme a zio Nino, non aveva fiatato, ma sapevo benissimo avesse sentito la conversazione.
Quando Anna era arrivata, le cose erano anche peggiorate, se possibile, o perlomeno dal mio punto di vista. Perché Anna e Marco sono come due calamite: anche se sono lontani, finiscono inevitabilmente per attrarsi e ritrovarsi vicini. E così era stato, perché accanto a zio Nino che farneticava sull’anello di fidanzamento, si erano trovati l’uno accanto all’altra come se fosse il loro posto naturale.
Quando lei si è spostata in cucina, infastidita dalla situazione, Marco non ci ha pensato due volte a seguirla e tentare di consolarla, perché aveva evidentemente capito qualcosa che perlomeno a me sfuggiva. E io mi sono accodata perché volevo sentire, ma quella conversazione mi ha solo fatto montare ancora di più il rancore.
Perché, nemmeno a dirsi, l’argomento era il giorno del loro matrimonio.
La cosa che più mi ha fatto ‘male’ è stato il modo in cui ne parlavano. C’era nostalgia nelle loro voci, e nei loro sguardi. E il desiderio di poter cambiare il finale.
“Io mi ricordo quando ti ho vista entrare in chiesa, e lì mi sono sentito l’uomo più fortunato della terra… anche il più stupido…”
Queste non erano parole di un uomo che non provava più niente per la sua ex, anzi.
Erano le parole di un uomo che, se avesse potuto, avrebbe sposato quella donna in quel preciso istante.
E lei avrebbe fatto lo stesso. Poco importava se avesse concordato con lui che era stato uno stupido. Anche lei ricordava l’istante del suo ingresso in chiesa con la stessa nostalgia, con lo stesso sguardo sognante che non lasciava spazio alle interpretazioni. Perché a quel ‘sì’ avrebbero voluto arrivarci entrambi. E il rimorso che così non fosse stato li logorava in ogni istante.
In quel momento, per la prima volta, veramente, ho provato gelosia verso il loro rapporto. Verso quello che li legava. Perché è l’amore che ogni bambina sogna fin da piccola. Quello infinito, indistruttibile, che supera ogni avversità. Che niente e nessuno può spezzare. È l’amore che ci si immagina leghi i propri genitori. È l’amore che vuoi diventi realtà per te.
E invece lo vedevo palesato tra l’uomo che stava con me e la donna che avrebbe dovuto, agli occhi di tutti, stare accanto a lui.
Per questo mi sono intromessa e ho richiamato Marco con una scusa, ma non prima di aver lanciato a lei uno sguardo rancoroso, ricambiato da uno che non sono riuscita a decifrare completamente.
C’era da un lato quasi un senso di colpa da parte sua, un ‘è più forte di noi, mi spiace’. Ma dall’altro c’era anche la sicurezza di chi non si sarebbe rimangiata nemmeno una parola di quel dialogo. Nemmeno uno sguardo carico di sottintesi.
Così quella sera, quando Marco mi ha confessato le sue paure per Ines e per Anna, come se fosse una cosa normale, io non ho resistito. Ho sbottato. Ho detto senza giri di parole cosa pensavo.
Non ero veramente arrabbiata. Ero solo stufa. Per anni mi sono trovata nella situazione di avere attorno a me persone che hanno preferito i non detti piuttosto che affrontare la realtà. Segreti, bugie, errori che hanno finito per rovinare e logorare rapporti. Che si sono portati via persone. Non volevo più far parte di quel ‘gioco’. Non volevo essere la villain della storia, né essere la vittima. Volevo essere felice. E vedere chi avevo intorno felice.
Non mi bastava l’affetto che sapevo provasse per me, e a lui non poteva bastare il mio amore. Era orribile sapere che stava con me e pensava a lei in ogni istante. Perché ogni cosa nella sua vita la faceva per lei, per cercare di renderla felice, per starle accanto nonostante tutto. Perché la amava ed era l’unica cosa che contava.
Sentirlo finalmente ammettere la verità è stata una liberazione, ma non per questo non mi ha fatto male.
Lasciarsi non è mai bello. Anche quando lo fai tutto sommato 'consensualmente'.
E soprattutto quando la persona che lasci ti ha fatto crescere, maturare. Perché lui mia ha aiutato a riempire nuovamente quel guscio vuoto che ero diventata dopo le perdite nella mia vita. Marco – ma anche Anna – sarà sempre una pagina importante della mia vita. Quel capitolo che nel libro sembra inutile, un momento en passant, ma invece è il turning point dell’intera storia.
“Hai ragione, io penso ancora ad Anna. Non ci riesco, non riesco a farne a meno. Ci provo, ma…”
Per quanto lo sapessi, ammetto che sentirglielo dire è stato comunque come ricevere una pugnalata al petto, ha fatto male.
Prima di andarmene ho provato ancora a metterlo in guardia. Ma sapevo che il mio tentativo sarebbe caduto nel vuoto. Perché avrebbe continuato a stringere la sua rosa incurante delle spine che, sullo stelo, gli ferivano le dita.
Quando ho fermato Anna, sul pianerottolo di casa, qualche sera dopo aver lasciato Marco e saputo del lavoro in Siria che lei aveva ricevuto, volevo impedirle di salire al piano di sopra per andare da lui. Mi sono messa in mezzo volontariamente.
Ho sbagliato, lo so, non dovevo impicciarmi, ma dopo aver incontrato Marco quella mattina, sulle scalinate che portano in piazza Duomo, dopo giorni che non lo vedevo e ho visto il suo viso mentre parlava di lei, non ho pensato a niente se non ha ‘sdebitarmi’ per quello che aveva fatto lui per me. Mi aveva ferito, ma mi aveva anche salvato da me stessa. Mi aveva restituito, col suo esserci e col suo affetto, la mia vita. La vera Valentina. E non volevo altro, se non che lui facesse lo stesso con sé.
Quella mattina mi aveva chiesto scusa per come si era comportato. Lui non sapeva che in realtà lo avevo già perdonato in cuore mio, anche se il dolore c’era.
Quando ho incontrato Anna e l’ho vista pronta a correre da lui, ho rivisto lo sguardo addolorato di Marco di quella mattina. E ho provato a fermarla.
Per qualche motivo, sapevo che Marco non sarebbe riuscito a separarsi da lei nonostante quell’apparente rottura, se io non fossi intervenuta.
Non volevo lei lo ferisse ancora, non mi importava se entrambi erano di nuovo liberi. Non le avrei permesso di continuare a spezzargli il cuore, se potevo evitarlo.
Non sarebbe tornato con me, ne ero cosciente e non avrei nemmeno provato a riprendermelo.
Ma se non potevo e non ero riuscita a far ragionare lui, dovevo provare a farlo con lei. Dicendole in faccia cosa pensavo, nel bene e nel male. Che è poi quello che avrei voluto la gente avesse fatto con me nel tempo, invece di trarre conclusioni.
E così ho fatto. Punto per punto, le ho detto quello che forse aveva bisogno di sentirsi dire, ma nessuno aveva il coraggio di dirle. Non ero probabilmente nemmeno io la persona giusta per farlo. Ma ora poco importa.
Doveva capire chi fosse, le ripercussioni delle sue azioni sulla vita degli altri, e in particolare in quella di Marco. Se lo amava veramente, come pensavo, avrebbe dovuto prendere la decisione giusta. Per sé e per Marco.
Nella peggiore delle ipotesi, sarebbe stata l’ennesima conferma all’idea che l’amore vero non esiste, nemmeno quando sembrerebbe di sì.
Non potevo fare più di quanto avevo fatto. Speravo fosse abbastanza.
E così il giorno dopo me ne sono andata.
Sono tornata a Roma per recuperare il rapporto con mio padre.
Ho chiesto a zio Nino di farmi sapere se si sarebbe sposato, perché avrei voluto esserci. Se lui era stato il mio padrino al battesimo, io volevo essere la damigella al suo matrimonio.
Nel viaggio in treno avevo avuto modo di riflettere su quello che lui mi aveva rivelato del passato di Anna alla stazione, seppur in pochissime parole.
Avrei voluto scusarmi per come le avevo detto cosa le ho detto. Ma non ero pentita di avergliele ‘sbattute’ in faccia. Perché nelle mie parole c’era comunque un fondo di verità. Se non era pronta a fare le cose in due, non avrebbe mai scelto Marco. Ne ero convinta.
Quando però la sera dopo zio Nino mi ha chiamata per dirmi che le cose tra lui ed Elisa si erano risolte per il meglio, e che le nozze ci sarebbero state, anche se non sapeva ancora quando, un’altra novità è giunta dal telefono.
La notizia mi ha lasciato subito di stucco, lo ammetto, ma poi ho capito che non c’era nulla di cui essere stupiti.
Nei miei mesi a Spoleto ho capito che le anime gemelle non esistono solo nei film o nei romanzi. Che prima o dopo, le due metà della stessa mela ritrovano la strada per ricongiungersi.
E che tutti i treni prima o poi, nonostante i ritardi, giungono alla stazione finale del loro viaggio. Per poi ripartire verso una nuova meta, con nuove tappe intermedie lungo il percorso, inevitabili ma essenziali.
Il treno di Anna e Marco, come fidanzati, ha raggiunto la stazione finale questa mattina.
Qui, nella chiesa di Sant’Eufemia.
Il loro viaggio, costellato da numerose soste, li ha portati a ritrovarsi oggi uno di fronte all’altra davanti a Don Massimo, pronto a celebrare il loro matrimonio.
Come era stato ampiamente previsto da tutti, e come testimoniano la gioia e le lacrime dei presenti alla cerimonia.
Alla fine, Anna ha scelto lui.
O, per essere precisi, lo ha scelto all’inizio.
E Marco ha scelto lei.
Hanno scelto di viaggiare verso la prossima meta della loro storia insieme. Sullo stesso treno.
Hanno scelto di legarsi con due fedi d’oro, che non sostituiscono il filo rosso che da sempre li ha uniti, bensì ne rafforzano la tenuta.
Hanno scelto di dare il lieto fine a quella storia nata in una notte d’agosto, durante una nevicata assolutamente fuori stagione. Come sta ricordando ora Marco, mentre lei gli sorride intrecciando le loro dita.
Hanno scelto di essere felici insieme, anche se hanno sempre avuto il terrore di non essere abbastanza l’uno per l’altra.
Hanno scelto di andare oltre il dolore che si sono arrecati e di coprire la macchia di quel passato con la vernice giusta. Una vernice che copre, ma non fa dimenticare cosa è successo. Perché serve anche il dolore, per amare veramente.
Hanno scelto di decidere insieme del loro futuro lavorativo, soprattutto quello di Anna. Perché non c’è più la paura di partire, ma nemmeno quella di restare.
E non c’è più la paura di dipendere dall’altro nelle proprie scelte, né la paura di prendere decisioni da soli.
Hanno scelto di scegliersi.
In ogni istante e al di sopra di ogni cosa.
Perché le anime gemelle non possono fare altrimenti.
Puoi tentare di dividerle, ma non si separano mai davvero. Perché sono destinate a ritrovarsi sempre per via di quel filo rosso che le unisce e non può spezzarsi, nemmeno se a separarli ci fossero migliaia di chilometri e ostacoli.
E poi perché se le anime gemelle si chiamano Anna e Marco, non possono che essere destinate a tornare verso la loro meta, tenendosi per mano…
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Voices
FanficLa storia di Anna e Marco, raccontata dalle voci dei personaggi intorno a loro, che ci diranno anche qualcosa in più su di sé.