Prologo

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Stoccolma, novembre 1995

Quello che Percival Waterson avrebbe ricordato meglio di quella notte, a distanza di anni, sarebbe stato il silenzio.
In quel vecchio capannone abbandonato dove erano stati costretti a rifugiarsi, gli unici rumori percepibili erano l'ululato della tempesta che infuriava sulle desolate periferie svedesi e lo sfrigolio del suo telefono satellitare.
Percival non era mai stato bravo ad usare quegli aggeggi. Per tutto il periodo del suo addestramento a Quantico quella era stata l'unica cosa che il suo mentore aveva potuto rimproverargli.
Quella volta, tuttavia, il suo ritardo nell'informare la base riguardo l'esito della missione era dovuto solo in parte alla sua incapacità di utilizzare i mezzi di comunicazione.
La verità, era che quella volta Percival non desiderava affatto mettersi in contatto con il comando centrale.
E per dire cosa, poi? Per dire che la missione era stata un fiasco totale? Per dire che erano caduti in un'imboscata ben congegnata come un gruppetto di stupide reclute? Per dire che la maggior parte degli agenti incaricati, i migliori di cui l'organizzazione disponesse, erano stati eliminati come moscerini?
No, Percival non desidarava affatto l'ingrato compito di riferire tutto questo ai superiori.
Ma purtroppo, anche se nessuno aveva ancora avuto il coraggio di fare il conto dei morti, lui era sicuro di essere l'unico superstite umano. Pertanto, spettava a lui fare rapporto.
Ma non aveva intenzione di farlo quella notte. Per una volta, avrebbe rimandato all'alba il dolore del ricordo. Magari, se si fosse addormentato, avrebbe scoperto che si era trattato solo di un sogno... nient'altro che un sogno.
Era una speranza alquanto infantile, se ne rendeva conto. Ma avrebbe dato qualunque cosa perché si avverasse.
Nel capannone, stesi su dei giacigli improvvisati, stavano i pochi sopravvissuti.
Dei novantaquattro agenti speciali partiti dalla base quella mattina, solo sedici erano ancora in vita dodici ore dopo. Percival aveva perso più colleghi e amici in sole due ore di quanti ne avrebbe persi nel resto della sua carriera.
Umani, maghi, mutanti, perfino i semplici autisti... nessuno era stato risparmiato.
L'agente si guardò intorno: erano tutti silenziosi e immobili, ma nessuno riusciva a prendere sonno. Era naturale, dopo l'accaduto.
Tuttavia, la base non avrebbe potuto recuperarli finché la tempesta non si fosse calmata. Tanto valeva recuperare un po' di forze.
Poi si accorse di lei.
Era seduta in un angolo a gambe incrociate, la schiena appoggiata al muro, lo sguardo perso nel vuoto.
Di tutti gli agenti incaricati di portare a termine quella missione, lei era l'unica per cui Percival non aveva mai dovuto preoccuparsi. Era sicuro che, come al solito, lei ne sarebbe uscita viva. Uccidere una leggenda non è cosa da poco.
Tuttavia, ben presto si rese conto che, nonostante il suo nome e la sua storia, Stoccolma aveva segnato profondamente Lorel Morrison.
-Posso sedermi qui?
Lorel non rispose, non lo guardò nemmeno. Ma Percival si sedette lo stesso. Mentre si accovacciava, il dolore al braccio lo fece gemere. Il taglio sanguinava ancora, ma non voleva che i maghi lo curassero con la magia. Non si fidava di certe cose.
Notò subito che la ragazza aveva qualcosa in mano... una freccia. La punta era spezzata e ricoperta di sangue secco, ma era senz'altro una freccia. In grembo, invece, aveva una maschera.
Percival sospirò: sapeva bene cos'era successo.
-Lo sai che non è stata colpa tua,vero?
Lorel annuì, ancora senza guararlo.
Percival avrebbe voluto aiutarla, ma sapeva che niente di quello che avrebbe potuto dire l'avrebbe fatta stare meglio. Perché niente poteva riportare in vita Oliver.
-Lui era un grande, Lorel- sussurrò, mettendole una mano sulla spalla- mancherà a tutti noi.
La ragazza deglutì. I suoi denti mordevano il labbro inferiore nel disperato tentativo di non piangere.
-Avrei dovuto capirlo...-mormorò piano.
Quelle parole, appena percettibili, ebbero l'effetto devastante di tramutare tutto il dolore e la disperazione di Percival in rabbia, una rabbia furiosa indirizzata, più che contro coloro che avevano materialmente strappato la vita dalle mani di tanti suoi colleghi, verso colui che aveva reso tutto questo possibile.
-Non potevi sapere che ci avrebbe traditi...- sussurrò, più a se stesso che a Lorel- ...nessuno poteva.
Poi non si dissero più nulla.
Settero in silenzio fino a quando Percival non si addormentò.
Sognò l'imboscata. La rivide nella sua mente decine e decine di volte. Rivide i nemici che colpivano, la gente che moriva, il sangue che sgorgava dalle ferite.
Si svegliò di soprassalto, poco prima dell'alba. Aveva il fiatone e i capelli incollati alla fronte.
D'istinto allungò una mano per cercare Lorel. Dovette muoverla per diverso tempo prima di rendersi conto che lei non c'era.
E quando se ne accorse, un cattivo presentimento gli riempì il petto, rendendolo spaventosamente e dolorosamente pesante.
Si voltò verso l'angolo dove la sera prima aveva lasciato la ragazza. Adesso, al suo posto, c'era solo una lunga spada affilata.
Ma ciò che fece capire all'agente speciale Percival Waterson che Lorel Morrison, la Dama dei Coltelli, la taglia più alta degli ultimi seicento anni, se n'era andata, fu la sua maschera, poggiata accanto all'elsa e rivolta verso la porta, proprio come un biglietto d'addio.

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