parte 2

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I giorni seguenti sono rimasta per terra accanto al telefono ad aspettare uno squillo da parte dei ragazzi che, secondo le mie fantasie, mi avrebbero comunicato di essere stata accettata come membro del gruppo. Il pavimento era come uno di quei giorni autunnali gelidi e ostici, io ero lì per terra, con le gambe sul petto e le braccia incastrate tra le ginocchia a lasciarmi avvolgere da quelle sensazioni ripugnanti che si contrapponevano tra loro. I miei piedi nudi diventavano sempre più violacei e pallidi, le mie labbra sempre più screpolate e decolorate, i miei occhi sempre più socchiusi e persi. La luce era fioca e il riscaldamento era stato interrotto perché non pagato. Non dormivo da giorni e vedevo la band come fosse l'unica mia ancora di salvezza. Le punte delle mie dita sono diventate ben presto incapaci di trattenere l'ultima sigaretta perciò è caduta in un tonfo che ha vibrato l'aria, spegnendosi.
Si, ero stata un imbecille a prendere e avviarmi all'uscita esattamente dopo essermi esibita e per di più con un atteggiamento presuntuoso e arrogante ma non volevo ammetterlo, in quel momento covavo dentro di me una sensazione di vuoto accompagnata da un sottofondo malinconico creato dal continuo litigare dei condomini del piano di sotto. Ed era così che passavano i secondi, le ore, i giorni e a ogni istante sentivo l'attesa divorarmi. Perché sì, non era il vuoto, non era il silenzio, come non era neppure il fallimento che mi uccidevano, bensì l'attesa.

Vivevo all'ultimo piano di un appartamento malandato di sette piani, vecchio, di un colore pallido e scolorito.
La parete dove era posizionato quella sottospecie di divano aveva due finestre che davano sul vialetto e che percorrevano tutto l'appartamento in diagonale, per cui, l'angolo acuto dove era posizionato il mio letto a due piazze, s'infiltrava in una terribile profondità, tanto che non si riusciva neppure a vederlo bene. Il mio appartamento era formato da due sole stanze, una era un bagno, l'altra un insieme fra camera da letto, cucina e soggiorno. Le stanze erano anguste e da sotto questo palazzo si sentivano perennemente le urla degli ubriaconi, quelle dei mercanti caotici e l'odore delle taverne fumanti.
L'aria era addensata, concentrata, fitta.
Il condominio visto dall'esterno era alto, sembrava non finisse neanche nel cielo, era grigio, un po' piegato su se stesso, con le tegole alte e rossastre.
Era gotico e punk allo stesso tempo. Affianco a questo vi erano altri appartamenti, tutti inclinati, erano uguali, vecchi e brutti.
Mi sono alzata barcollante, ritirando il naso che colava e afferrando dalla credenza in alto una ciotola verde posta nel lato della mensola e una tazza ormai divenuta gialla dagli anni.
Frattanto ho sentito la porta bussare.
Con il volto consumato dal sonno e assorbito dal moto continuo di quei giorni già scritti anche se mai vissuti, che proseguivano solamente per inerzia, mi sono diretta verso l'ingresso, ricoperto da libri che parevano scaffali e da mucchi di piante che coprivano le pareti spoglie.
La mia porta è stata colpita ancora, questa volta molto più insistentemente della prima. Ho aperto con furia, non preoccupandomi di chi sarebbe potuto essere.
Ma eccoli lì, erano i ragazzi della berlino rossa. Con un'aria mista a imbarazzo e incomprensione, domandavano dal ciglio della porta qualcosa del tipo "mh..possiamo entrare Aria?".
D'un tratto mi è salita la rabbia interiore che ringhiava qualcosa del tipo: prima buttate giù la mia porta e poi mi chiedete di poter entrare, imbarazzati di aver trovato una ragazza assonnata e stanca con addosso una canottiera e delle mutandine rosa? Ma erano solo pensieri.
Involontariamente il mio volto si è fatto rosso-rosso e ho iniziato a tremare come una foglia.
In quel momento difronte a loro ero come un mucchietto di ossa vecchie e decrepite che si ostinavano a non polverizzarsi.
-Magari è meglio se ripassiamo tra qualche ora, se per te va bene Aria-
ha azzardato Sara frettolosamente, cominciando a voltarsi verso l'uscita.
-No no, è tutto ok rimanete, accomodatevi nel divano, cioè in quello che è rimasto...vabbè avete capito-
Ecco, dopo quella esitazione stavo aspettando solamente che qualcuno si facesse avanti chiudendomi la porta in faccia, ma, contro ogni aspettativa Achille dall'esterno aiutava Marin a portare delle valige impilate l'una sopra l'altra all'interno del mio appartamento.
-Scusa Achille cosa state facendo?-
Ho chiesto quasi sussurrando, come a non voler far sentire questa mia sciocca domanda a Marin e Sara.
Achille, ha risposto fermamente con qualcosa del tipo:
- Non ti hanno telefonato i produttori? Li avevamo avvisati una settimana prima di organizzare il nostro colloquio che viviamo nell'auto quindi avresti dovuto ospitarci per qualche tempo. Loro hanno detto che sarebbe stato meglio, vivendo sotto lo stesso tetto è più possibile creare una sorta di connessione-.
Quando ho compreso che ero stata presa il mio cuore ha cominciato a esplodere facendo i salti di gioia, anche questa volta, in silenzio.
Marin dopo aver postato la valigia, aveva cominciato a ispezionarmi, stava osservando me e il mio corpicino ed era perso tra i suoi pensieri. Non so se a causa del fumo o dell'insonnia, ma posso confessarvi onestamente che il suo sguardo posato radicalmente su di me era bastato a convincermi a farli entrare e a stabilirsi momentaneamente a casa mia.

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