parte 1

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Il mio nome è Aria, diminutivo di Arianna, la mia vita negli ultimi anni si è svolta in un quartiere degradato di Roma, San Basilio. Ho diciassette anni, ma potrei tranquillamente averne sette, dodici, trenta o addirittura quaranta o sessanta. Da piccola mi piaceva pensare che i miei mi avessero chiamata Arianna perché erano appassionati alla mitologia greca ed erano a conoscenza del personaggio di Arianna, principessa di Creta e sposa di Dioniso. Solo più tardi ho compreso che loro ignoravano tutto ciò, ma questo non ha arrestato la mia curiosità. Qualche anno dopo, all'età di quindici anni, mi sono imbattuta nella filosofia di Nietzsche e nell'antitesi dell'apollineo e dionisiaco. Stupido a dirsi, la figura di Dioniso è diventata il mio spirito guida in quanto emblema della disarmonia, dell'ebbrezza, del caos e dell'inquietudine.

Fin dal principio i miei genitori non mi hanno voluta ma erano troppo credenti per poter abortire, così mi hanno affidata alle braccia protettrici della terra. Hanno perso la mia tutela quando, durante la gravidanza, il medico aveva severamente vietato l'utilizzo di alcol e farmaci e loro, contrariamente a quello che era stato severamente espresso, mi hanno esposto a questi pericoli. Tuttavia sono nata senza aver risentito delle loro trasgressioni, in un parto ben più che normale, passando tutta la mia infanzia in un istituto cattolico dove le visite da parte del mondo esterno erano di per sé rare. I miei genitori non mi sono mai venuti a trovare, non ho idea di chi siano, i primi anni ho ricevuto rare telefonate o cartoline, ma dopo qualche anno nulla di tutto ciò. Da parte loro solo silenzio. E questo ha fortemente influenzato il mio essere molto introversa e silenziosa.
A sedici anni, quando mi hanno rilasciato dall'istituto cattolico, mi sono trasferita a Roma, una città dove tutto è in movimento ma nulla di davvero sensazionale succede.
Solite rapine di botteghe, stupri, violenze, divorzi, traffico, tram che non arrivano mai, perenni lavori nelle metro, locali In, luci e neon la sera, puzza... una terribile puzza.
Roma è il ritratto carnale delle parole pronunciate da Sorrentino: "il posto del mondo in cui vivere perché è una straordinaria città morta duemila anni fa." Un cadavere in putrefazione. Miracoloso. Profano. Mirabile.

Fin da bambina ho manifestato una forte propensione alla musica, scrivevo dei testi di canzoni qua e là, che adesso sono dispersi in tutta la mia stanza da letto, che cade in un triangolo vertiginoso di influenze soffocanti, idoli distrutti, giovani persi e indecenze sconcertanti, che nascondono la mia ancestrale paura del buio.
Avevo cominciato a seguire uno studio che aveva deciso di investire su di me, finanziando un colloquio con dei ragazzi per una eventuale band alternative rock. Quell'incontro ha cambiato radicalmente il corso della mia vita.

Ricordo quel giorno come se fosse ieri. Erano le 12 e mezza e mi trovavo in via Piccolomini, nel quartiere di Aurelio, lì io e i ragazzi della band avevamo fissato il colloquio in una bettola sulla strada principale. Nell'attesa del loro arrivo stavo fumando una sigaretta nel mezzo della strada. Il mio fumo si confondeva con le nubi grigie che morivano lassù vicino ai gabbiani. Osservavo gli uccelli dalle ali nere che giocavano a rincorrere le nuvole sparse nel cielo in infinite posizioni. Stavo espirando beatamente tirando il fumo contro il vento e quest'ultimo faceva il medesimo sforzo con me: assorbiva il mio fumo dentro, con fare pacato. Alle volte tardavo il ritmo, poi qualche minuto dopo continuavo a tirare giù tutto.
Mi pareva di tenere un pezzetto di terra tra le dita. Nel punto in cui mi trovavo, vari edifici, sia a destra sia a sinistra, incorniciavano il magnifico sfondo della cupola di San Pietro. Ho deciso di allontanarmi dalla cupola per raggiungere i miei compagni nella bettola ma una sensazione strana si era impossessata di me.
Sentivo lo sfondo invadere il mio spazio. Mi sentivo sempre più piccola, cadevo in un oblio nero, dove i lampioni lunghi, il traffico dei pedoni e delle macchine della città aumentavano gradualmente il loro passo. Tutta la cupola si faceva stranamente più grande. Mi ritrovavo barcollando ed indietreggiando, indietreggiando e barcollando...
Contemporaneamente mi sentivo come fischiare nelle orecchie, avvertivo un ombra caotica avvicinarsi progressivamente a me.
Nell'arco di una decina di secondi ho sentito un mostro con quattro ruote frenare scivolando, sbandando e contraendosi nell'altro verso della strada. Un tipo dai capelli dorati sparati in faccia dall'aria e il volto bianco ha cambiato espressione, suonato il clacson e rivolgendosi a me ha esclamato incazzato:
"levati dalla strada troia, per poco non ti investivo, cazzo!"
Mi sono sbloccata distratta, spostandomi dal centro della strada e con furia ho imprecato:
"figlio di puttana, troia lo dici alla stronza di tua madre!"
Sono caduta goffamente, inciampando nella protuberanza del marciapiede a confine con la strada, nell'atto di indietreggiare e solo dopo vari secondi, mi sono accorta che il ragazzo dai capelli dorati mi stava facendo il dito medio dal suo dinamico veicolo decapottato.
Solo dopo aver ripreso la mia lucidità, sono riuscita ad individuare la sua cabrio rossa e di sfuggita i tre ragazzi che vi erano per così dire "seduti": una ragazza sul finestrino di fianco al volante, che cantava una strofa della canzone che passava in radio: Territorial Pissings ; un ragazzo dai capelli scuri, neri, che aveva fatto a cambio per il volante, e infine l'ultimo, lo stronzo dai capelli dorati che era slittato nei posti inferiori dove era sdraiato con i piedi fuori dal veicolo.
Li ho visti voltare strada in un vicolo sporco, credo che mi fosse affiorata l'idea che fossero degli spacciatori, dei delinquenti, o chissà chi altro...Io invece mi dirigevo nel luogo prestabilito, una bettola a pochi passi da lì, dove io e i ragazzi della band ci saremmo incontrati, ma prima ho fatto una sosta al tabaccaio. Sono entrata. Dentro pareva non ci fosse nessuno, se non per le voci e le urla che sentivo provenire dalla stanza dietro il bancone.
"Buongiorno" ho bisibigliato incerta.
Ha risposto la voce roca di un uomo, che con un grugnito animalesco, dirigendosi al di fuori della stanzetta, ha esclamato impaziente:
"Cosa cazzo vuole, le sembra che io abbia tempo per le sue stronzate?"
Ok, ok...devo ammettere che la parte finale della frase aveva assunto un tono minaccioso, soprattutto a causa dell'inclinazione acuta della voce.
"Mi dia un pacchetto di Marlboro perfavore"
L'uomo rimaneva inerme. Aveva gli occhi grandi, angolati verso il basso e la pelle chiara e abbastanza rugosa, sono quasi certa che fosse un giapponese, anche per il modo di parlare.
Più tardi è uscita dalla stanzetta una donna, piccola e magra, tremava come una foglia. Credo che avesse capito che lui non era nelle condizioni di servire i clienti, così era venuta lei.
La donna ha afferrato le sigarette dalla mensola in alto aiutandosi a salire con uno sgabello e dopo qualche secondo si è voltata verso di me, ha abbassato lo sguardo e ha detto:
"Ecco a lei, sono 4,50"
Aveva una voce calda ed ingenua, come quella di una bambina. Aveva dei tratti delicati come la seta e gli occhi scuri come la notte. Sono certa che aveva semmai dieci anni. Dietro di lei, le mani da orso dell'uomo cingevano la sua vita e quel cannibale era nell'atto di impossessarsi ancora del suo corpicino gracile, toccandole voracemente la schiena e palpandole l'accenno di seno.
Nel frattempo io, fingendo di essere distratta, ho preso gli spicci dalla tasca posteriore dei miei jeans strappati e li ho posati nel bancone, facendoli tintinnare a contatto con il marmo fresco...ma l'uomo e la bambina erano già tornati dentro.
Ho lasciato i soldi dietro il banco e poi sono uscita.
Mentre mi dirigevo nel caffè al lato della strada sentivo le urla farsi sempre più lontane, ma il volto di quella bambina era impossibile cancellarlo dalla testa.
Ho raggiunto la bettola dove mi sono intrettenuta bevendo e fumando mentre aspettavo l'arrivo dei miei compagni. Più tardi, il ragazzone che preparava da mangiare ha deciso di fare un brindisi per suo padre, defunto da anni, e così ha offerto un giro gratis.
Il brindisi era confuso e non molto convinto, che lasciava desiderare, era qualcosa del tipo: "questa va alla mia più grande fonte di ispirazione,...grande uomo e...grande ...(rimuginava la parola fra sé e sé, come se non ne trovasse una adatta per l'occasione,) ...padre!"
Io ero al bancone a osservare scrupolosa ogni tratto di ogni uomo o donna al mio fianco.
C'era la ragazza nella zona sud ovest, era sulla ventina, che guardava in basso, con le mani cinte al suo ventre, sussurrando: "e adesso come glielo dico, e adesso come glielo dico?". C'era l'uomo dell'ala centro sud che fumava un sigaro, cacciando i soldi dal portafoglio e odorandoli, quest'uomo portava un orologio dorato e una collana anch'essa dorata. Ma di volto non saprei descriverlo, era un uomo, di quelli insignificanti che si trovano ovunque.
Ed io invece ero nella curva nord in un tavolo da quattro posti attaccato al muro, con delle poltrone rivestite da stoffa di colore magenta che davano alla finestra rettangolare contornata da neon rossi. Il pavimento era a quadri bianchi e neri. E mentre stavo fissando quelle mattonelle, in particolare una di colore nero, mi sono persa fra i miei pensieri. Di nuovo.
Mi era risalito in gola il volto sconvolto della bambina e le sue grida di dolore, di strazio...avevo tante domande. Perché si trovava lì? Era stata abbandonata dalla sua famiglia o lei una famiglia non l'aveva mai avuta? Era cresciuta da sola? Cosa ci faceva li, con quell'uomo? Ma soprattutto, come conviveva con il fatto che la sua esistenza era mutilata dalla sua stessa scelta di violenza per sopravvivere, una scelta in sé sbagliata, poiché la sopravvivenza è un atto moralmente inutile se la morte ti è già penetrata dentro? Ma, a distanza di anni, credo di essere giunta alla conclusione che la ragazza mi incuriosiva, ripugnava e rattristava così tanto, perché in un certo senso mi rispecchiavo in lei.
Ma in quel momento avevo solamente una certezza...la mia mattonella nera, era stata calpestata, sì proprio così, era stata calpestata, da un paio di scarpe (probabilmente di taglia quarantaquattro o quarantacinque) di colore grigio biancastro, che avevano di fatto ridimensionato la mia dimensione di sogno, facendomi tornare alla realtà.
Ho alzato lo sguardo e mi sono ritrovata difronte a me la stessa identica figura di un'ora prima. Lui era alto, molto di più di quanto immaginavo, aveva un taglio degli occhi inconsueto, con l'iride di ghiaccio, i capelli dorati che gli coprivano il volto e la pelle bianca. Non era affatto brutto, anzi era (ed è) uno dei ragazzi più belli mai visti in vita mia, forse il più bello, con quell'aria che era un misto tra follia e serietà.
Sta di fatto che il contatto delle sue scarpe bianche con la mattonella nera, mi aveva turbato, ricordandomi un po' l'anima nera di quel vile figlio di puttana che poco prima mi aveva dato della troia.
"hey bambola, piacere Marin...devo ammetterlo, lei, signorina, ha un aspetto tanto bello quanto dannato" si è fatto avanti il biondo, con un'aria da poeta maledetto.
"Non chiamarmi bambola, io non sono la tua bambola, io non sono la bambola di nessuno, chiaro?" ho ringhiato io di scatto.

Marin si è sistemato il colletto della camicia nera (era ovvio che non era stata una sua idea indossarla perché muoveva il collo in modo strano, pareva si stesse strozzando) e ha guardato tutto il tempo in basso, evitando di incrociare il mio sguardo. La camicia, leggermente sbottonata nel petto, lasciava trasparire la forma del suo corpo che sembrava scolpito in marmo e da lì sotto sporgevano i suoi muscoli. Solo cinque minuti dopo mi sono accorta della presenza degli altri: la ragazza del finestrino alla sua sinistra e il ragazzo dai capelli scuri alla sua destra.
La ragazza facendosi avanti, con voce dinamica mi ha domandato: "è lei la tipa per il colloquio, giusto?"
"Si sono io" ho risposto io frettolosamente.
Ero spiazzata, dispiaciuta e furiosa, molto furiosa, non avrei mai immaginato che fossero loro i ragazzi della band ed era ovvio che ormai la stronzata era fatta e l'occasione persa. Ma tutti questi sentimenti contrastanti non li avevo dati a vedere, al contrario, avevo mantenuto una posizione stabile e irremovibile, come se niente mi avesse potuto distruggere, quando in realtà l'avevano già fatto.
"Io sono Sara, lui è Achille e l'altro è Marin, ma tu questo già lo sai" ha azzardato, con aria di sfida.
"Dio basta, ora sedetevi, non ricordate, lei ha il provino, il provinoo?!" è scattato Achille pronunciando le ultime lettere soffermandosi sul loro peso.
Ci eravamo quindi seduti tutti, io per prima e a seguire Achille, difronte avevamo invece Sara e Marin.
Più tardi la barista, una donna di mezza età visibilmente annoiata, si è accostata a noi portando qualche birra.
"Allora, sei Arianna, giusto?" ha domandato Sara.
"Aria, mi chiamano tutti così"
"bene, Aria, hai avuto già qualche esperienza musicale?".
"canto da quando sono piccina e scrivo qualcosa, si, mi piace scrivere, molto"
"no, intendo: hai mai suonato per altri gruppi musicali?"
"emh, no"
"ah, hai detto che canti e scrivi, hai qualche registrazione o qualche testo da mostrarci?"
"no, ho dimenticato i testi nel mio diario" ho risposto frettolosamente.
"ma che cazzo sei venuta a fare?" ha domandato Marin "dici di non avere i testi e di non avere qualcosa da farci ascoltare e per di più, non hai neppure un minimo di esperienza...lo sai che penso, eh? Che sei solo un egocentrica, fottutissima e presuntuosa bimba del cazzo. Svegliati! In questa merda di mondo per fortuna non siamo tutti miserabili quanto te. E adesso, se siete tutti d'accordo, puoi anche andartene a fanculo, l'uscita è infondo al corridoio a destra"
"Beh credevo di farvi ascoltare qualcosa qui...ma è evidente che mi sono sbagliata, qui voi non avete nessuna voglia di ascoltare...quindi sì, l'egocentrica, fottutissima e presuntuosa bimba del cazzo preferisce smammare che rimanere qui anche per un istante in più" ho ribattuto io.
"smettetela di bisticciare! Arianna, se ne hai ancora voglia vai nel palco e facci sentire di cosa sei capace, solamente quando avrai finito potremmo giudicare" ha detto Achille, riprendendo il controllo della situazione "e tu, Marin, sei proprio un coglione!" ha continuato rivolgendosi con disgusto al suo amico.
Ero furiosa, ma avevo una voglia immane di vendetta, così ho afferrato il microfono e ho deciso di fare una cover del brano "and i love her" dei Beatles, ma seguendo le tracce della versione alternativa di Kurt Cobain, un po' modificata nel testo e nella tonalità, ma caratterizzata soprattutto da una costante malinconia cronica.
Dopo alcuni tentativi di schiarirmi la voce ho iniziato a intonare i primi versi della canzone.
La mia voce era calda come la casa ma distante, sembrava provenire da un altro pianeta. La mia voce rimbalzava tra le mure agghiaccianti, correndo e contorcendosi in infinite posizioni, cambiando forma e colore in un solo balzo. Era qualcosa di selvaggio e sconosciuto, primitivo e rivoluzionario. Cantavo i miei versi, che diventavano pura poesia. Era seta miscelata all'acqua, era pura e calda come qualcosa di nuovo e dissetante. Nella bettola tutti si erano voltati stupiti a guardarmi, persino il versante centro sud! Mi guardavano tutti e sono sicura che ero la stella più luminosa che stava brillando difronte ai loro occhi.
Credo sia inutile parlare della completa ammirazione da parte di Sara, Achille, gran parte dello staff e tutto il resto della gente nella bettola. Non scorderò mai gli occhi penetranti di Marin, che sembrava aver dimenticato le parole di poco fa e mi fissava celando la sua completa ammirazione come fossi oro zecchino nelle grinfie di un lupo mannaro; la gioia di Achille che ha iniziato a salterellare per il perimetro della stanza gridando: "avete sentito anche voi? l'avete sentita?"; e Sara, che sembrava essere restata indifferente e ostica per tutta la mia esibizione, ma che con il suo solito tocco ironico, mi ha concesso un: "sei brava per essere una novellina in materia".
Devo ammettere che questo commento, pronunciato con tale provocazione, mi aveva alquanto turbato e forse per questo non ero riuscita a essere completamente entusiasta della mia esibizione.
Mi sono diretta verso l'uscita appena finita la mia esibizione, evitando gli sguardi e senza concordare nulla con i ragazzi. Forse per troppo orgoglio, ho preso l'ultima metro della giornata e sono tornata nel mio appartamento.

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