Magre consolazioni

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Non c’è stata alcuna pace per me in questa dimora. Non più da quasi una settimana; non più dal roseo crepuscolo che ha sancito il termine della mia agiatezza cerebrale. Così ogni notte, da QUELLA notte. Non c’è logica negli accadimenti che mi sovrastano l’animo e che incatenano il pensiero movente a un profondo e paralizzante terrore primordiale.
Privato costantemente del sonno, mi appare persino lontana la prima volta che successe. Una giornata come un’altra, che per me adesso perdura imperterrita nelle piaghe di questo tempo irreale. Non cessa e ritorna, ogni volta, sempre uguale.

Che fosse mercoledì o che fosse novembre poco importa, poiché sarebbe andata comunque allo stesso modo: io che mi sveglio, io che mi lavo, io che vado in ufficio, io che torno a casa da lavoro. Le pertinaci consuetudini che già mi rendevano moralmente spregevole stavano però per mutare inesorabilmente e giunto il tramonto, fu l’inizio della fine.
Dapprima sentii solo un piccolo gorgoglìo, durevole ma fin troppo lieve per dare adito ad alcuna preoccupazione. Durante la preparazione del mio famoso roast beef all’irlandese continuai a sentir certi stridori, ma il suono procedeva sì tenuamente da farmi creder che provenisse da fuori. Terminata ciò che potrei definire la mia “ultima cena” uscii, come da tradizione, per fumare l’ottava Lucky Strike della giornata sebbene, colpito dal freddo fin nelle ossa, mi apprestai lesto a rientrare. Una strana sensazione mi assalì, facendomi tentennare nel procedere: un brivido improvviso e inspiegabile come d’adrenalina, che tuttavia fece interrompere ogni mio pensiero. Giunto davanti all’ingresso roteai la maniglia della porta con particolare stasi, come se già mi aspettassi qualcosa.
Spalancando la porta, si udì una chiara, malefica grassa risata, pronunziata verosimilmente da un’anziana iettatrice, o per lo meno questa fu l’immagine che mi balenò in testa nel sentir tale suono. Uno sghignazzo innaturale che mi bloccò anima e corpo, davanti all’uscio per parecchi interminabili minuti.
Rientrai paonazzo e a stento riuscii a chiudere la porta alle mie spalle, con un occhio sempre vigile verso gli angoli della stanza. In quel momento, un secondo rumore, gracchiante e strozzato, mi fece quasi singhiozzare fuori l’intero apparato cardiorespiratorio, a causa del sussulto provocatomi.
Riverberava ovunque e m’instillava un senso d’insicurezza mai provato. In preda al panico cercai in ogni camera la fonte degli infernali richiami, senza purtroppo alcuna fortuna. Si protraevano per minuti e poi il silenzio più assoluto, con il solo angoscioso pensiero a farmi compagnia. In seguito ad una tregua piuttosto duratura, arrivai persino a convincermi che il tutto fosse stato un acerbo frutto della mia immaginazione e cercando di pacarmi accesi la tv gettandomi sul canapè di pelle nabuk, quello che generalmente evito di sporcare. Malauguratamente, con ancora il telecomando tra le mani, un altro impensabile lamento mi fece sobbalzare, portandomi infine a lanciare l’oggetto che tenevo contro l’acquario dei Black Molly, scalfendone il vetro senza che però potessi accorgermene.
Un altro e un altro ancora: orridi schiamazzi, clamori che nella mia mente accostavo a creature del calibro di Dagon, il Dio pesce dei Cananei.
Stravaganti risucchi e goglotìi intermittenti ottusero la mia fibra mentale per l’intera durata della notte. Cercai riparo all’interno delle coperte nel mio spazioso talamo celibe ma anche lì, seppur sommesso, quel tormento acustico incideva nella psiche vessazioni degne di un Vlad di Valacchia.
Per tutto il giorno e la notte a seguire non trovai il coraggio di allontanarmi dall’alcova, digiunando ed espletando i miei rifiuti organici nel secchiello per il ghiaccio.
Il terzo giorno arrivai a fantasticare sul mangiare i miei escrementi, nonostante, anche dopo tutte quelle ore, il mio olfatto non riuscisse in alcun modo ad abituarsi al fetore profuso nell’ambiente da quella ripugnante cloaca di plastica che un tempo riceveva costosi Cabernet d’annata. Ciò mi fece ponderare sulla possibilità di uscire dalla camera. Il più semplice processo cognitivo mi risultava oltremodo disagevole, giacché, tra i continui sibili, soffi, rimbombi, brontolii e sferragliamenti vari, a questo punto mi era insostenibile qualunque tentativo d’interesse o concentrazione nei riguardi del mondo esterno. Mi convinsi comunque ad abbandonare la camera.
Quel che apparve innanzi alla mia persona non appena dischiusi la soglia, non tiene conto di alcuna esperienza vissuta nella storia dell’uomo sulla terra. Se fino ad allora un minuscolo frammento d’illusoria fiducia altalenava confuso nel mio traviato flusso d’idee, quel che credei di vedere indusse in tutto me stesso un assillo di shakespeariana follia.
Alla mia presenza si ergeva un figuro turpe, fluttuante, magro all’estremo e rugoso, smisuratamente alto; coperto di nero da un caliginoso abito talare e un cappuccio che crudelmente lasciava intravedere … il “volto”.
Quel maledettissimo, orripilante, raggelante volto. Sprovvisto di occhi o cavità oculari, naso, orecchie o alcunché avrebbe potuto ricordare, di fatto, un viso umano. Completamente glabro, con la pelle ovunque raggrinzita e un ripugnante, nauseabondo orifizio orale che ammantava ben oltre metà della superficie a vista; i fitti denti affilati e allungati si serravano in una stridula morsa per poi spalancare quelle oscene fauci infernali e scatenare infine le reboanti atrocità che sino a quel momento ignote mi avevano perseguitato.
Allora pensai di capire. Pensai d’aver finalmente scovato la fonte di quel supplizio devastante, ma il mio spirito affievolito non resse all’inconcepibile rivelazione e mi spinse nuovamente a rinchiudermi nella stanza alle mie spalle, gettandomi disperatamente in ginocchio, in un pianto isterico che sovrastava persino i lamenti dell’inverosimile essere che mi tormentava. D’un tratto m’interruppi e intesi la quiete, ormai tragica quanto la tempesta, poiché era in quei momenti che fuoriuscivano dalla mia mente nefaste libere associazioni, o se non altro quelli erano gli unici momenti in cui potessi arrivare a comprenderle.
Ma subitaneo il deprecato volto del male affiorò non appena udii nuovamente quei sinistri rumoreggiamenti. Ancora una volta mi ritrovai a faccia a faccia con l’evanescente visione demoniaca, che emerse nella mia stanza come un ologramma dal piano inferiore. Corsi fuori verso la cucina tentando di arrivare alla porta principale e darmi alla fuga, ma scivolai bruscamente e contusi malauguratamente i glutei e la schiena, più di quanto mi fosse necessario per la deambulazione. Notai il parquet totalmente bagnato, pensando a un altro dei perfidi stratagemmi atti a distruggermi.  Dovetti però ricredermi in seguito all’avvistamento, non lontano, delle salme di molti dei miei pesci preferiti, accorgendomi della crepa nell’acquario che giorni prima avevo causato e dovendo inoltre accettare il fatto di aver allestito la mia stessa trappola. La consapevolezza che andavo sempre più concretando, congiuntamente alla temporanea disabilità motoria, mi avvicinò irrimediabilmente a una nevrosi paranoide, ma provai comunque a strisciare imbelle verso un’utopica libertà, dettato da un innato istinto di conservazione che pensavo di aver ormai perduto tra le varie melanconie depressive che tuttavia non ebbi il coraggio di assecondare nel tempo.
Non mi fece attendere molto, d’altro canto, quella deforme proiezione del fratello di Hypnos. Ecco che mi sovrastava, fisso nel buio, alla ricerca di un bersaglio; il raccapriccio e l’odio che covavo verso quel nemico implacabile m’indussero frattanto un repentino calo di pressione e una notevole riduzione dell’usuale quantità di sangue trasportata al cervello, provocandomi una sincope vasovagale poco virile e possibilmente esilarante.

Mi svegliai irrimediabilmente confuso, parecchio tempo dopo. Riesumai il mio corpo dal suo stato vegetativo grazie a uno sprazzo di follia mista a un incongruente e primitivo istinto di sopravvivenza, con l’unico obiettivo di combattere per ciò che avevo sempre dato per scontato e che adesso mi convinceva sempre più di tutte le recondite paure che affollano la mente dei bambini più ingenui.

Silenzio, assoluto e ottundente, mentre io cercavo d'impedirmi di pregare un essere superiore, uno qualunque.

E rieccolo, quel suono, a cui in nessun modo riuscivo ad abituarmi.

Notai tuttavia che più mi avvicinavo verso il bagno e più esso si faceva consistente. Provando a prendere coraggio da un’asmatica boccata d’aria, poggiai l’orecchio premendo sulla porta, udendo chiaramente tutte quelle orride frequenze che ovattate vibravano nel legno. Le mie gambe furono affette da tremori incontrollabili, poiché la mia mente aveva preso una decisone: sarei entrato là dentro.
Nulla a questo punto m’impedì di aprire violentemente l’accesso a quel che ritenevo addirittura una qualche personificazione del tristo mietitore.

La verità, però, fu ben più amara e beffarda che qualunque livida aspettativa mi fossi fin lì proposto.

Ad annientare ogni mia sicurezza, a demolire il mio spirito, a struggere le mie membra afflitte, a guastare ogni mia convinzione morale non fu un’empia entità sovrannaturale, non fu un demone che dall’oltretomba cercava di sterminarmi né la maledizione di chissà quale mostro disumano.

Erano le tubature della caldaia.
Ingorgate e arrugginite, stavano ormai consumandosi del tutto, all’interno delle mura.

E dopo la peggior settimana della mia vita, mi tocca pure chiamare l’idraulico di domenica.






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