Capitolo 1

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(FLASHBACK INIZIO)

Dei miei primi anni di vita non ricordo niente, mia mamma diceva che quando ero nata sembravo un alieno, una creatura di un altro mondo, perché ero talmente piccola da entrare in una mano (sono nata prematura), e avevo una testa ricoperta da un mucchio di capelli neri.
Diceva sempre, ridendo, che avevo più peli che carne ed ossa, e che mi accarezzava come fossi un peluche e non come una neonata appena messa al mondo.
Questo è ciò che ricordo che diceva mia mamma. Di lei, non posso confermare , invece, di averne tanti, ma quelli che ho sono così vividi nella mia testa come se quei momenti trascorsi con lei, li avessi vissuti ieri in un tempo non molto lontano, e ho come l'impressione che quest'ultimo si fosse fermato a noi, come se le lancette di un orologio avessero smesso di girare e non sono andate più avanti.
Ma questo è solo un'impressione come ho detto, perché il tempo ha camminato e quelli hanno preso la forma dei ricordi.
Ad esempio, ricordo le ciambelle con lo zucchero che preparava quando era di buon umore, quando si doveva festeggiare qualcosa.
Il rossetto sulle labbra che metteva anche quando non doveva uscire, delle lunghe docce fatte nella vasca da bagno e io fingevo di essere uno squalo. Ricordo le mattine che non riusciva a svegliarsi e restavo ai piedi del letto a fissare le lenzuola che la coprivano fino al collo, talvolta anche fino alla testa.
Allora pensavo che avesse vergogna di farsi vedere da me, oppure che quella fosse una delle sue giornate no, e che dovevo aspettare che passasse, come gli altri giorni.
A volte, in quelle giornate per farle passare più velocemente, mi avvicinavo alla mia cesta dei giochi e la svuotavo mettendola sottosopra in modo che cadessero tutti i giochi a terra provocando un gran rumore.
Spaventata mi giravo per controllare che non si fosse svegliata mia madre, ma lei era al letto, quindi tornavo a giocare.
Prendevo un gioco, lo smanettavo per un po', poi annoiata ne prendevo un altro è così fino a sera, dimenticando persino di mangiare.
È solo di tanto in tanto vedevo mia madre alzarsi dal letto per andare in bagno o svegliarsi per ricordarmi che ,se avevo fame, c'era del latte nel frigo, i cereali o del pane in una busta o delle brioche del giorno prima.
Veniva spesso a trovarci una donna più grande di lei, indossava pantaloni e giacca dello stesso colore, e una camicia sempre bianca, aveva anche lei le labbra coperte di rossetto e portava con sé una specie di libro con dei fogli all'interno. Ero sicura che non era un libro di favole come quelli che mi venivano regalati, perché questo era spoglio di copertina e non vi erano disegnati figure di principesse e draghi, di gnomi e fate, di oggetti magici, ma solo simboli e lettere in nero.
Quando quella donna veniva a casa, mamma mi lasciava nella camera da letto a giocare, loro restavano in cucina a parlare, a volte discutevano e sentivo pronunciare il mio nome.
Durante le discussioni la donna mi chiamava e io interrompevo subito quello che stavo facendo per correre in cucina, la signora si avvicinava e mi guardava, con lei anche mia madre, poi prendeva le mie esili braccia senza stringerle, ma solo toccandole come fossero tronchi fragili di un albero, poi mi sussurrava all'orecchio, e subito dopo si avvicinava a mia madre comunicandole qualcosa che io non riuscivo a capire.
Diceva tante cose, quella donna, che non capivo. D'altronde, c'erano molte cose che non mi erano chiare.
Non capivo perché nei giorni prima e fino a quella visita mia madre era armoniosa, e subito dopo tornava ad essere silenziosa e triste.
Non capivo perché durante il giorno lei piangeva e urlava come facevo io quando volevano farmi uscire ed io ogni volta mi agitavo perché non volevo lasciarla sola a casa.
Non capivo il malessere che le si avvinghiava senza motivo, da mattina a sera, oppure la mattina, o la sera, o tutto il pomeriggio.
Non mi piacevano tutte le volte che mia madre si comportava come se non lo fosse.
Quando il contorno degli occhi si faceva rosso dopo i molto pianti, ed io cercavo di farla ridere accendendo il televisore sintonizzandolo sul canale che avrebbe trasmesso quel programma che tanto ci faceva ridere.
Quando urlava per ogni insignificante cosa, quando pregava Dio di chiamarla a sé, quando chiudeva la porta della camera da letto e vi ci stava sola per ore, a volte sbattendoci ripetutamente la testa sopra.
In quei momenti mi spaventavo tanto che mi tremavano le gambe. Allora prendevo il lettore mp3 o accendevo la radio e facevo partire la musica ad altissimo volume tale da non sentire il pianto di mia madre e la paura dentro me.
Lentamente andavano via quei giorni, altrettanto lo facevano anche questi.
Senza lasciare tracce, senza fare rumore come le formiche che si rifugiano nelle tane dopo essersi procurati il cibo sufficiente per tutta la stagione.
Avevo imparato,quindi, che i giorni si dividevano in due categorie: giorni belli quando mia mamma si alzava dal letto, la mattina, e iniziava a camminare per la casa in cerca di qualcosa da fare, a prepararsi, a vestirsi, a truccarsi,pur senza uscire, a giocare con me, a fare strane forme con il plastichino, a guardare la tv, a sporcarci con la farina per preparare un dolce, e poi fare il bagno insieme, a ridere e a divertirci.
Nella seconda categoria, invece, c'erano i giorni brutti, ed erano a dismisura, sono quelli che ho descritto prima: i giorni in cui, mia mamma, non s'alzava e trascorrevo tutto il giorno sola con la cesta dei giochi.
Pensavo sempre che la colpa fosse di un mostro, un essere trasparente, invisibile, che riusciva a oltrepassare le porte come una sorta di fantasma, e sedersi sul suo corpo credendolo un cuscino, a fare ore, oppure giorni, di intero ozio, senza muovere neppure una gamba.

Perché lo faceva, mi chiedi ? Non lo so, allora pensavo questo tutte le volte che lei era sul letto e somigliava ad un serpente schiacciato da un grosso animale.

Tra queste due categorie, ne incastro una terza, seppur piccolissima: quella dei giorni un po' strani, cioè giorni in cui un uomo in peso e non molto alto, con i capelli scuri e, tra questi, alcuni bianchi tra le tempie, veniva a prendermi.

"Nonno ti accompagna a scuola, oggi." Diceva mamma. Della scuola ne avevo sentito parlare tante volte, ma la conoscevo così poco. Quando mio nonno arrivava a casa, io scappavo sempre. Non volevo andare a scuola. Non volevo lasciare mamma.

"Se tu vai a scuola, mamma va a lavoro!" Esclamava mio nonno con tono di rimprovero e d'obbligo. Ma io non ci credevo mai, non so il perché.
Col tempo imparai, ogni volta che sentivo il campanello della porta suonare e sapere che fosse lui, a nascondermi sotto il letto o nell'armadio confondendomi con i vestiti freschi, appena comprati e mai indossati, e avvolti da un profumo di vuoto.
mia mamma iniziò presto a non dirmi più chi era alla porta, ciò nonostante, quando la sentivo suonare io sparivo nel nulla, o almeno provavo a farlo.
A volte subito mi trovavano, altre volte impiegavano qualche minuto in più. Alla fine, però, in alcuni casi avevo io la vittoria benché mi avessero trovato nel rifugio, in altri casi erano loro i vincitori, anche quando usavo il pianto e le grida. Quest'ultime erano le mie armi più forti, seppur, talvolta, mi venivano meno.
Quando mio nonno aveva la meglio, con l'aiuto di mia madre, uscivo di casa con lui e vedevo il mondo, e mi ci perdevo perché la confusione era troppa. Le tante cose che i miei occhi vedevano e le orecchie udivano, mi incuriosivano tanto quanto mi spaventavano.
Questo mondo con così tante cose dentro, con tutte queste nuvole sparse nel cielo, con queste auto sfrecciare di qua e di là, e persone sfiorandoti e guardarti mentre ti passavano accanto , mi intorpidiva. Il mondo che conoscevo io era più piccolo, fatto di poche stanze e di molti giochi, di una sola persona, mia mamma, e tante viste sullo schermo del televisore. Di radio, di letti disfatti, di pentole sporche, di favole e di mostri che dormivano senza permesso. Ed era il posto più sicuro che conoscessi.
Nonno,invece, conosceva un luogo, nel mondo grande, più tranquillo dove non vi era il frastuono. Era un parco grande coperto di erba e con panchine, giostre e un laghetto senza pesci. Ci sarò andata si e no, tre o quattro volte. Purtroppo non ricordo perché le volte in cui mi ci portava sono state davvero pochissime, diceva sempre che doveva lavorare tutto il giorno e che non aveva tempo di giocare con me e che gli dispiaceva molto.

Non è facile scrivere di cose che sono accadute anni e anni fa, quando eri solo una bambina. Infatti ogni volta che prendo la penna e inizio, con fatica, a farlo mi sento di entrare in una lunga galleria buia, senza lampioni a fare strada, senza segnaletica orizzontale né verticale a dare informazioni. Ho la sensazione di entrare e che ogni passo compiuto al buio in questo percorso sempre dritto, mi riporta alla mente delle cose e sento nello stomaco un senso di liberazione,ma anche di grande sconforto.
Sento, inoltre, una paura venirmici addosso man mano che avanzo perché la strada si fa sempre più buia.
Una persona mi ha invitato a scrivere una storia, la mia storia, in un quaderno,"o se vuoi in un diario" ha detto.
Anche altre persone come lei prima mi avevano detto di scrivere tutto ciò che volevo, emozioni, pensieri, ricordi, i miei desideri e via dicendo.
Non l'ho mai fatto. Mi sembrava stupido. Per di più non avevo nulla da dire, nulla da raccontare.
Che senso ha scrivere una storia se non si conosce già la fine ? Raccontare un susseguirsi di cose, di eventi, se non sai dove essi condurranno ?
Conoscevo solo l'inizio della mia storia ed era un gran merda di inizio.
Dunque, ho sempre escluso l'idea di farlo. Ora però che il finale c'è, ora che Lei me l'ha chiesto, posso raccontare finalmente qualcosa.
Consideri bene questo, però : lo faccio solo perché é Lei che me lo chiede, perché,  so che vuole capire di più cosa c'è dentro la mia testa.

Non chiedermi scusaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora