Cielo,

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Pioveva, quel giorno.
Tante goccioline scendevano lente lungo il vetro della finestra, lasciando che il mio indice tracciasse la loro traiettoria. Il cornicione gli impediva di continuare la loro corsa, e così piccole chiazze d'acqua piovana andavano pian piano formandosi fino a coprire ogni centimetro di quella lastra di marmo.
Aprii la finestra. Le goccioline ora cadevano velocissime.
C'era molto vento, quel giorno. In cielo a malapena si riusciva a intravedere qualche raggio di luce; le foglie degli alberi frusciavano in continuazione. Era un bel suono, quello delle foglie. Pareva il sibilare di un serpente, o il rumore di tanti fogli di carta sparpagliati sul tavolo.

Richiusi lentamente la finestra. Ora la manica della mia maglietta era bagnata. Sorrisi.
Non andai a cambiarmi la maglietta, quel giorno. Mi piaceva sentire il brivido della pioggia sui miei vestiti.

L'autunno era la mia stagione preferita. Mia madre invece odiava la pioggia. Diceva che la pioggia ti impedisce di fare molte cose quando sei fuori casa. Non puoi farti delle belle foto, non puoi giocare al parco, non puoi fare pic nic all'aria aperta, diceva.
Lei amava l'estate, il caldo, il sole splendente. Io invece lo odiavo.
Se uscire con la pioggia era sbagliato, allora anche uscire con il sole doveva essere vietato. Il sole può scottarti la pelle, può farti sciogliere il cono gelato, può dar fastidio agli occhi quando cammini.
Questo però non lo dissi mai a mia madre. Non volevo darle dispiacere.

Sapevo che ai bambini della mia età dovevano piacere le belle giornate, giocare all'aperto e correre sotto il cielo limpido e luminoso; ma qual era la giusta definizione di belle giornate? Per me erano le giornate di pioggia, le belle giornate. La pioggia mi affascinava, il suo crepitìo mi tranquillizzava, e la notte il forte vento e l'acqua battente contro i vetri mi aiutava ad addormentarmi.
Ero forse solo io a pensarla così? Era sbagliato preferire qualcosa di diverso dagli altri? Non c'era nulla di male in fondo, giusto? Allora perché sentivo come se questa mia preferenza fosse un errore?

Non capivo, e forse mai avrei capito cos'era giusto o sbagliato.
L'unica cosa che sapevo però era ciò che provavo, ciò che sentivo dentro di me. Gli altri non avrebbero capito, ed era giusto così. Non volevo essere capito, io.

La pioggia finì presto, quel giorno.
Ero appena uscito di casa, senza ombrello; mia madre era in salotto, cucendo dei calzini a maglia.
Saranno state le quattro o giù di lì.
Qualche gocciolina mi bagnò la testa, e le mie mani divennero ben presto fredde. Mi piaceva quella sensazione.

Non c'erano molte persone in giro. Arrivato sul ciglio della strada, mi fermai al semaforo rosso.
Aspettai. All'improvviso avvertii uno strano calore sulla caviglia destra.
Un gatto aveva appena attorcigliato la sua lunga coda attorno il mio polpaccio.
Sorrisi. Mi accovacciai per accarezzarlo, era così soffice. Anche il suo pelo scuro era umido ma non tremava per il freddo.
Forse anche a lui piaceva la pioggia?

Miagolò, prima di voltarsi. Una figura da lontano correva verso di noi e una voce lo chiamò.
La pioggia continuava a scendere, sempre più debole, a ritmo costante.
La tua minuta figura teneva un grande ombrello tra le mani, quel giorno. «Tapioca!» Urlasti. Che buffo nome per un gatto, pensai.
Alzai lo sguardo, ancora accovacciato a terra.
Ti avvicinasti al gatto, abbracciandolo con foga. I tuoi capelli erano come il pelo di Tapioca, umidi, scuri, soffici.
Lasciasti cadere l'ombrello a terra, gli sorridesti sollevato e lo prendesti in braccio appena ti si avvicinò.
I nostri occhi si incontrarono, e mi invitasti ad alzarmi.

Ero più alto di te, quel giorno.
La tua voce stridula è ancora impressa nella mia memoria. Mi ringraziasti per aver trovato il tuo gatto, e mi domandasti il mio nome. Poi mi sorrisi, dolce.
La pioggia ora scendeva sempre più lentamente. Nonostante portasti l'ombrello con te, tu ti bagnasti decisamente di più.

Ci misi vari secondi prima di rispondere alla tua domanda. Inevitabile fu la tua risposta; inclinasti la testa, sorridente, pronunciando il tuo nome.
Jisung.
Anche il tuo nome era buffo, Jisung.
Dopodiché mi invitasti sotto il tuo ombrello.

Il semaforo scattò verde per i pedoni. Io rimasi coi piedi ancorati sul ciglio della strada, senza muovere un muscolo.
Il sole era ormai alto in cielo, splendente più che mai. Della pioggia non vi era più traccia, se non qualche goccia che pareva rugiada al mattino. Io però non me ne accorsi.
Ritornammo indietro sui nostri passi, uno affianco all'altro, sotto lo stesso ombrello.

Mi chiedesti diverse cose, eri un vero chiacchierone, quel giorno. Io a malapena risposi alla metà delle tue domande. Non ero mai stato chissà quanto loquace, ma eri così insistente che non potei non accontentarti, almeno un poco.
Non camminammo insieme per molto. Tu voltasti a sinistra, in quella piccola via poco distante da casa mia.
Mi salutasti, chiudesti l'ombrello e ti osservai entrare nel pianerottolo, seguito da Tapioca.
Ricominciai a camminare, ritornando verso la strada di casa. Tenevo le mani nelle tasche e le spalle ricurve.

Odiavo il sole, odiavo il caldo.
Ma quel giorno, la mia mente non riuscì a formulare tali pensieri. Non mi accorsi del sole, e nemmeno dei miei capelli asciutti, delle mie mani ormai tiepide e delle mie guance rosate.

Il tuo nome risuonava nella mia mente, insistente, e non capivo il perché.

Forse anche a te piaceva la pioggia, Jisung?

☔︎

~hansiogena🐿️

vento blu↬minsung ༄Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora