Chapter 3

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Sedevo per terra con entrambe le mani sulla caviglia cercando di bloccare l'emorragia, avevo mollato la pistola subito dopo aver sparato al cuore del ragazzino. Non ricordo più quante persone io abbia ucciso in due anni, ma se non lo fai per molto tempo lo shock della "prima uccisione" torna più potente della prima, vera, volta. Il cielo della notte veniva riflesso dagli occhi spenti della persona che mi aveva ferito, li fissavo nella speranza che potessero tornare in vita. Distolsi lo sguardo dal ragazzo per osservare la scena che si presentava attorno a me: persone ferite o morte, zombie che si muovevano lentamente azzannando la folla e urla accompagnate da sangue.
    Strisciai aiutandomi con le mani fino ad arrivare al corpo del ragazzino e piano gli tolsi la maschera da vagante. Sotto quel costume che lo proteggeva non c'era soltanto un assassino, ma una vita. A volte dimentichiamo che le persone che uccidiamo hanno vissuto esperienze, emozioni, difficoltà e gioia. Ma aveva davvero senso piangere la morte di qualcuno che ha partecipato all'attacco della comunità dove alloggiavo?
    Indossai con fatica la maschera e sviscerai il corpo di un vagante accanto a quello del ragazzo. Affondai le mani per riuscire a prendere più sangue possibile e mettermelo addosso, ero così abituato a farlo che la puzza non mi causava più i conati di vomito. Il miglior nascondiglio per camminare accanto a centinaia di vaganti era indossare il loro stesso costume, il loro sangue e adesso, la loro pelle. Se volevo scappare facendo meno fatica possibile quella era l'unica soluzione.
    Prima di abbandonare per sempre quel territorio volevo fare soltanto un'ultima cosa. Tornai al corpo del ragazzino ed estrassi il coltello dalla fondina, con uno scatto portai la mano armata alla sua testa e affondai la lama. Non si sarebbe più svegliato.
    Mi alzai a fatica e tenni la pistola salda fra le mie mani, la paura che i vaganti potessero riconoscerti non ti abbandonava neanche indossando il loro costume. Zoppicavo lento verso la prima uscita della comunità, mi guardavo attorno per capire se ci fosse qualcuno che potessi aiutare ma non riconoscevo nessuno. Avevo perso la mia gente e non potevo stare minuti in più dentro quell'inferno. Quando misi piede all'esterno era come se respirassi un'aria nuova, più pulita, la caviglia ferita mi impediva di correre come stavano facendo tutte le altre persone che superavano in fretta il mio corpo, mi limitai a camminare lentamente finché non mi sentii in qualche modo più sicuro.
    Continuai il mio cammino fino a raggiungere il mare, sulla riva un'orda di vaganti camminava verso una destinazione ignota e decisi di seguire il loro istinto. Mi tolsi le scarpe e mi immischiai tra la folla.
    In un mondo diverso da questo quel ragazzino in questo momento poteva essere diretto a una festa, o esserci già. Avrebbe assaggiato il suo primo disgustoso drink e tossito violentemente perché il primo tiro di sigaretta lo vivi in questo modo. Il secondo sarebbe stato un po' meno peggio e sarebbe stata una sua scelta continuare o abbandonare un futuro vizio. Mi domandavo se tra quella gente mascherata erano presenti anche i suoi genitori o se fossero già morti prima dell'apocalisse. Mi domandavo quale fosse la storia del ragazzo. Siamo quel che diventiamo con le nostre esperienze, solo il futuro può cambiare la nostra vita. La domanda è: in male o in meglio?
    Ognuno di noi ha una storia, e un giorno vorrei raccontare la mia.

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