ii.

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Cosa mi è rimasto di te:
le tue lettere dall'inchiostro un po' sbiadito e il mio cuore lacerato che sanguina.

Seduti ambedue contro il capezzale del letto, il mio capo poggiato delicatamente sulla tua spalla larga, ti ascoltavo parlarmi di argomenti che sapevi mi avrebbero sorpresa. La mia attenzione rimaneva rapita dalla dolcezza della tua voce, dall'entusiasmo con cui pronunciavi ogni singola parola: anche se adesso la mia mano è intrecciata nella tua, avevi detto, non ci stiamo realmente toccando, e io avevo lentamente sollevato gli occhi, che m'impedivano di cogliere la totalità del tuo viso al di sotto delle mie lunghe ciglia, lasciando in me l'impressione che il tuo sguardo stesse precipitando verso il basso: nemmeno i nostri occhi s'erano incrociati.
Avrei dovuto capire in quel momento, in cui sentivo distintamente l'incapacità di articolare i miei pensieri in parole, che di lì in poi tutto sarebbe inevitabilmente stato destinato a declinare; avrei dovuto ricordare le parole di quella sera in auto, quando tenevo le ginocchia contro il petto e ti guardavo sorridendo, in cui precisai che tra noi sarebbe finita solo quando non saremmo più riusciti a terminare le frasi dell'altro, e quasi mi manca, ora, sentire il cuore nel petto agitarsi al pensiero di tutti gli istanti in cui tu concludevi i miei discorsi con le esatte parole incise nella mia mente, in cui mi sfioravi la mano senza che io avessi bisogno di chiedertelo. È poi arrivato per noi il tempo dell'addio, in cui io ti gridavo atrocità con la bocca che ambiguamente supplicavano di leggere le ferite nel cuore e tu guardavi punti fissi di fronte a te, quasi non riuscissi a udire la mia voce; il tuo sguardo spento non era più pronto a prendersi cura delle mie lacrime amare e la rabbia mi divorava da dentro perché non ero preparata a chiudere gli occhi e riaprirli sul grande vuoto lasciato da te nel mio mondo.
Nessuna preghiera è bastata a farti tornare da me, nessun dio mi ha stretta nelle notti in cui i pianti soffocati scavavano fosse aride lungo le mie guance, nessuna mano si prestava a soccorrermi da quel profondo smarrimento, solo il silenzio delle mura entro cui mi ero rinchiusa, la luce della finestra da cui aspettavo, speranzosa, il ritorno della tua figura, e lo spettro delle tue parole mute. Mi cullavo in soffici illusioni, mandavo giù veleni addolciti col miele e tamponavo il sangue che sgorgava con le foglie secche di un autunno ancora troppo lontano. Non ho più usato la tua agenda, ma ho sbirciato talvolta la tua grafia fissata nell'inchiostro nero di una penna che sta finendo per sbiadirsi su una carta annegata sotto il peso del mio pianto, dovrei smettere di girarmi quei fogli tra le mani e affidare al tempo la cura delle tue tenere menzogne, ma mi sono convinta fosse ciò che mi restasse di più vicino al poter stringere ancora una volta le tue mani lisce dentro cui le mie scomparivano; ad essere scomparso, ora, è invece il tuo viso, un tempo così familiare, di cui posso ricordare solo il disprezzo mascherato da indifferenza, e delle parole, un tempo misurate con prudenza per non ferirmi, affilate e già pronte a farmi a pezzi.

martyr amorisDove le storie prendono vita. Scoprilo ora