Capitolo 1
Attimi di buio.
Poi, di nuovo, il sole torna a sfiorarmi il viso dal finestrino.
E ancora, il buio.
Come in un gioco di ombre...
Mi trovo su un treno, ed è un po' insensato, probabilmente, tornare a casa sullo stesso treno di quando vi sono fuggita con la sola forza della mia innocenza, affondando i piedi su un terreno scivoloso dal quale non volevo essere risucchiata.
Ero la più piccola di cinque figli, tutti maschi eccetto me, ed era il 1920.
In Sicilia l'autunno scorreva via solitario come ogni anno, ma Palermo quel giorno era diversa: sembrava tutto un fremito di gente, intorno al Teatro Massimo, e il tram era l'unica compagnia nel resto delle strade isolate della città.
Avevo gli occhi di una bambina, allora, ma li vidi bene: un uomo scendeva la grande scalinata del teatro portando a braccetto con sé due donne stupende, dall'espressione raggiante, con le spalle scoperte e i tacchi alti, e le caviglie lisce e morbide, pulite come la pelle appena nata.
Non riuscivo a vedere le loro facce, ma le conoscevo già: i loro volti erano ritratti su dei grandi cartelloni per tutta la città, con le loro labbra disegnate e i lembi di pelle candida scoperta.
Trovavo quelle immagini affascinanti e meravigliose, ma le donne più anziane invece non le sopportavano: dicevano che quella del teatro era una scusa per rendere meno scandalosa agli occhi del mondo l'indecenza.
Io non sapevo cosa fosse questa indecenza, ma più le guardavo, con i loro denti bianchi e i loro occhi scuri e brillanti, più avrei voluto essere come loro, un giorno.
Vedendo una folla di curiosi alla fine dei numerosi gradini del Teatro, mi avvicinai sfuggendo al controllo di mia madre, che esitava invece stando in lontananza.
Mi intrufolai tra quei gomiti e quelle ginocchia, tentando di giungere più vicino possibile a quel mondo di luci e colori che erano i loro abiti, i loro movimenti, i loro sorrisi.
Si misero in posa per una fotografia proprio lì, davanti il Teatro Massimo, mentre io osservavo ogni gesto curiosa.
Poi i tre salirono dentro un'automobile, ma lì, invece di fuggire e sparire subito via come sembravano intenzionati a fare, l'uomo abbassò il finestrino e parlò, con la sua voce sicura e squillante, forse per l'abitudine di parlare più forte del normale per farsi sentire da tutta quella gente che stava uscendo dal teatro, pensai.
Parlò, e le sue parole mi sembrarono emergere da luoghi nuovi della terra, che non sapevo esistessero.
«Sono lieto che lo spettacolo abbia riscosso tanto successo, e ringrazio questa magnifica città e voi per l'onore che ci fate. Vi aspettiamo ancora così numerosi ed entusiasti!»
Detto ciò, fece cenno all'autista di andare via.
Ero incredibilmente sorpresa, per due ragioni che mi lasciavano anche perplessa. La prima era che quell'uomo doveva sicuramente essere straniero, poiché il suo nome era semplicemente impronunciabile. Eppure aveva parlato perfettamente l'italiano! Non ero ancora avvezza all'idea che un uomo potesse parlare in una lingua diversa dalla propria, e così facilmente. La seconda era che aveva persino usato una parola che io ancora non avevo mai sentito: entusiasti.
Tornai da mia madre, che si limitò a raccomandarmi di non lasciarle più la mano per allontanarmi in quel modo, eppure anche i suoi occhi sembravano luccicanti e lontani quasi quanto i miei.
Sentivo una carica di energia che mi spingeva a sapere, a capire cosa avesse detto quell'uomo così elegante e famoso abbracciato alle donne più belle del mondo. Forse, se l'avessi capito, avrei potuto capire anche come raggiungere il luogo da cui loro provenivano. E, forse, avrei potuto seguire il loro cammino.
«Mamma, cosa si fa quando non si sa che significa una parola?»
Mia madre mi strattonava via, verso casa, arrabbiata.
Ma non con me.
«Mamma?»
Si fermò, come se l'avessi sfiorata con una scossa piuttosto che semplicemente averla chiamata.
Il suo volto era mite, gli occhi marroni con lievi sfumature più scure e un cerchietto d'oro al centro dell'iride. Aveva sopracciglia folte e i capelli le solleticavano il naso perché, nella foga di quel ritorno a casa, il vento e il nostro passo svelto li avevano scombinati.
Ma mi sembrava sempre bella.
«Non si dice, una parola, quando non si sa che cosa vuole dire.»
Mi disse questo, distogliendo poi gli occhi senza sapere dove posarli e riprendendo il cammino, ma stavolta con più calma.
Non potevo accontentarmi di quella risposta. Capivo che lei non era contenta, quel pomeriggio, ma non sapevo bene perché. Mi limitai a guardarla, e lei di tanto in tanto con la coda dell'occhio ricambiava il mio sguardo fisso, capendo la mia silenziosa domanda ma prendendosi tempo per rispondere.
«Quelle donne potevano avere la mia età, l'avresti detto mai? Perché io lo so, quanti anni ho. Mi sono sposata giovane. Già, troppo giovane ero, ancora piccola. E ora, già mi sento una vecchia.»
Parlava, ma guardava altrove, guardava fisso davanti a sé come se lì vedesse un muro che il suo sguardo non poteva in nessun modo sovrastare. Ed era proprio come se questo la rendesse triste e stanca, nella sua giovane bellezza di mamma.
Si voltò di scatto dall'altra parte, passandosi forte una mano sul viso premendo su un occhio. Pensai le fosse entrato qualcosa, e odiai ancora il mio silenzio.
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Evereth
Historical FictionFuggita. Se fosse rimasta, la sua età ancora innocente in una Palermo degli anni Venti sarebbe stata macchiata dalla violenza. Sola. Quando incontra un uomo dagli occhi sprofondati e color nocciola, non può evitare di seguirlo: lui conosce il Teat...